ROMA – Il cinema è spesso un sogno che diventa immagine. Nel caso di Terminator di James Cameron fu letteralmente un incubo. Era l’estate del 1982. Cameron si trovava a Roma per curare la post-produzione di quello scult assoluto di Piraña paura la cui paternità registica meriterebbe una puntata di Longform a sé. Da quando fu licenziato dalla produzione aveva speso i suoi ultimi soldi rimasti per un biglietto aereo per tornare a casa. In quel periodo mangiò male Cameron, cibo scadente e (molto) economico. Nel giro di poco tempo, complice un clima di sfiducia e incertezza generale, si ammalò. Ebbe una fortissima intossicazione alimentare che gli causò febbre alta e dolori lancinanti ovunque. Una notte, in preda ad allucinazioni, fece un sogno stranissimo che gli avrebbe cambiato la vita per sempre.

Nel buio della mente vide emergere dal pavimento un endoscheletro metallico che si trascinava fuori da un inferno di fiamme ed esplosioni con in mano dei coltelli da cucina. Fu una folgorazione: «Vedevo queste immagini di una figura di morte metallica che si ergeva come una fenice dal fuoco, mi svegliavo, prendevo carta e penna e iniziavo a scrivere. Quando ho avuto l’idea originale per Terminator, ero malato, ero al verde, ero a Roma, non avevo modo di tornare a casa e riuscivo a malapena a parlare la lingua. Ero circondato da persone da cui non potevo ricevere aiuto. Mi sentivo molto alienato e quindi è stato molto facile per me immaginare un cyborg con una pistola. Nel momento della più grande alienazione della mia vita, è stato facile creare il personaggio».

E non è stata di certo una vita facile quella di Cameron. Molto prima di diventare regista visionario, Cameron è stato inserviente scolastico e camionista: era così che si guadagnava da vivere. Fu il suo periodo da tecnico degli effetti speciali nella troupe di Roger Corman a fare la differenza. Quella visione, però, fu il trampolino di lancio per iniziare a scrivere lo script di Terminator impostato sin dal primissimo concept come uno slasher in stile Black Christmas e Halloween. Quell’endoscheletro sarebbe dovuto essere futuristico, ma Cameron non poteva permettersi di ambientare il film nel futuro. Trovò così la soluzione: portare il futuro nel presente attraverso il viaggio nel tempo (che di Terminator è la pietra narrativa). L’idea, tuttavia, piacque poco al suo agente che gli consigliò di lasciar perdere.

Non Cameron però, che riuscì a tornare negli Stati Uniti, precisamente a Pomona, in California, dove fu ospitato dallo scrittore di fantascienza Randall Frakes che invece sostenne la sua visionaria idea. E in Terminator ci mise di tutto Cameron, dalla fantascienza sociale degli anni Cinquanta alle serie sci-fi Oltre i limiti e Ai Confini della Realtà sino a suggestioni silenziose come Alien (nella commistione eccellente con l’horror), Driver l’Imprendibile (il cyborg silenzioso come il Pilota di Ryan O’Neal, le riprese tutte in notturna) e Interceptor: Il Guerriero della Strada (nel delineare il contesto scenico del futuro che affiora come backstory). Tutte componenti tradotte su carta assieme allo sceneggiatore e amico Bill Wisher che contribuì alla stesura delle sequenze domestiche di Sarah Connor e di quelle del Dipartimento di Polizia con Ed Traxler e Hal Vukovich.

Ne venne fuori un primo, immaginifico ma soprattutto ambiziosissimo draft, che avrebbe reso Terminator un film completamente diverso. L’idea originale prevedeva, infatti, che Skynet inviasse due Terminator indietro nel tempo: il primo era un cyborg che sarebbe stato sconfitto da un umano anch’egli inviato indietro nel tempo dalla Resistenza. Un secondo Terminator, uno fatto di metallo liquido e mutaforma (vi ricorda nulla?), sarebbe stato inviato da Skynet in risposta. Per quest’ultimo Cameron considerò brevemente l’animazione in argilla in riprese scure per ritrarlo ma si rese presto conto che il concept era decisamente troppo ambizioso per ciò che avrebbe potuto ottenere con le tecniche dell’epoca. Sapeva anche che la sua reputazione non era ancora abbastanza grande da vendere una storia di tale portata a uno studio, quindi ne usò solo la prima metà.

Serviranno dieci anni, il successo clamoroso di Aliens – Scontro finale e i progressi tecnologici ottenuti con The Abyss per poter realizzare il suo Terminator dei sogni, ovvero T2 – Il Giorno del Giudizio, del 1991, ma ci arriveremo con calma. In questo primo draft, inoltre, il Terminator aveva bisogno di cibarsi con regolarità per mantenere coerente il suo involucro umano (dettaglio poi introdotto con T3 – Le macchine ribelli), ed era prevista una sequenza in cui Sarah e Kyle Reese avrebbero dovuto provare a far saltare in aria la fabbrica in cui ha luogo l’avvincente e serrato climax. A questo punto della storia entra in scena Gale Anne Hurd, collaboratrice della New World Pictures, produttrice e futura seconda ex-moglie di Cameron, che acquistò il draft al simbolico prezzo di un dollaro.

I due fecero un giuramento di sangue: la Hurd promise che avrebbe fatto qualsiasi cosa per produrre il film, a condizione, però, che fosse Cameron a dirigerlo. Prima arrivò la Orion Pictures che mostrò interesse per lo script di Terminator (lo trovate in streaming su Prime Video) accettando di distribuirlo se avessero ottenuto sostegno economico altrove. Che arrivò infine, grazie a John Daly al tempo CEO della Hemdale Film Corporation, per cui mise a disposizione un budget di poco meno di 4 milioni di dollari che lievitò presto a 6 milioni e mezzo con la co-produzione di HBO e Orion. Lo script fu così riletto e ridiscusso con la Hurd che contribuì con alcune intuizioni a snellirlo giudicandosi il credito come co-sceneggiatrice.

Un qualcosa che negli anni Cameron ha finito con il rimpiangere perché a conti fatti fu maggiore il contributo di Wisher, infine ridotto a semplice dialoghista. La scelta di rendere Sarah Connor l’eroina di Terminator, ad esempio, fu spesso attribuita alla Hurd che di suo non fece nulla per smentire la notizia. In realtà era da sempre nei piani di Cameron, ma non perché si fosse prefissato di compiere una qualche dichiarazione d’autore femminista. Semplicemente perché voleva essere originale, e fino ad allora – con l’eccezione di Alien – nessuno lo aveva mai fatto in un film dichiaratamente action. Nel caso di Terminator, con il suo impianto narrativo slasher, era invece necessario perché è su quei topos che la narrazione venne edificata in ritmo e spazio. Quindi anche quello della final girl: in questo caso Sarah Connor.

Nelle prime pagine dello script Cameron caratterizzò la eroina come: «19enne, minuta e delicata. Bella in un modo imperfetto e accessibile. Non interrompe la festa quando entra, ma vorresti conoscerla. La sua qualità vulnerabile maschera una forza che nemmeno lei sa che esista». Si fecero subito i nomi di Lisa Langlois, Jessica Harper, Jennifer Jason Leigh, Rosanna Arquette e Lea Thompson. La spuntò infine quella Linda Hamilton fresca del successo di Grano rosso sangue – un horror per l’appunto – che la rese infine leggenda. Discorso diverso per Kyle Reese e il Terminator, i cui destini finirono con l’essere un tutt’uno anche in sede di casting. Perché, entrata in co-produzione, la Orion Pictures nella figura dell’ex-CEO Mike Medavoy riteneva che Reese avrebbe dovuto essere interpretato da una star in ascesa. Il nome? Arnold Schwarzenegger!

Medavoy incontrò Schwarzenegger ad un party e pochi giorni dopo inviò lo script al suo agente. Cameron era incerto però. Schwarzy come Reese avrebbe significato scegliere qualcuno di ancora più rilevante in termini di levatura per il Terminator. Quindi Mel Gibson, Sylvester Stallone, Tom Selleck, Michael Douglas e perfino O.J. Simpson che Cameron, però, credeva che non sarebbe stato credibile nei panni di uno spietato assassino (!!!). Decise comunque di incontrarlo. Il suo piano era quello di attaccare briga con lui in modo da interrompere il meeting a metà e tornare tranquillamente in ufficio. A Cameron, però, piacque (e molto) Schwarzy che mostrò grande entusiasmo sullo script fornendo consigli sulla caratterizzazione del villain. Secondo lui chiunque fosse stato scelto per interpretarlo avrebbe dovuto comportarsi come una macchina, non essere una macchina.

In quel momento Cameron capì che sarebbe stato un villain perfetto e decise di offrirgli il ruolo: «Questo film non è focalizzato sull’eroe, ma sul cattivo, il Terminator». Talmente fu preso dall’incontro Cameron che ad un certo punto gli chiese perfino di smetterla di parlare e iniziò a disegnare uno schizzo immaginandolo come cyborg assassino. Dopo l’incontro, Cameron tornò da Daly dicendogli: «Sarà un Terminator fantastico!». Eppure, lì per lì, si può dire che Schwarzenegger accettò il ruolo unicamente per soldi e perché riteneva che un film contemporaneo avrebbe giovato alla sua carriera. L’idea di interpretare un robot lo elettrizzava. Un cambio di ritmo rispetto al dittico Conan (Il Barbaro e Il Distruttore) che influì però sulla componente dialogica. In Terminator (14) ebbe perfino meno battute di quante pronunciate in Conan: Il Barbaro (24).

Per Reese divenne tutto molto più semplice a questo punto. Serviva un giovane in rampa di lancio ma dal livello pari o comunque non superiore a quello di Schwarzy, anche per non gravare tropo in termini di budget: Sting, Christopher Reeve, Matt Dillon, Kurt Russell, Tommy Lee Jones, Scott Glenn, perfino il Boss Springsteen e non ultimo Michael Biehn che per il ruolo studiò le storie della Resistenza Polacca durante la Seconda Guerra Mondiale e che alla prima audizione, in verità, non convinse del tutto Cameron e la Hurd. In quel periodo si stava preparando per un’audizione contemporanea per una produzione teatrale di La gatta sul tetto che scotta che lo fece parlare con un forte accento del Sud. Per quella produzione non ottenne la parte, per Terminator si, ma solo grazie al suo agente.

«Quale accento?» disse dopo che gli fecero notare la cosa, alla seconda audizione il mistero fu chiarito e Biehn diede a Reese quel giusto mix di carisma, eroismo e vulnerabilità che ha finito con il renderlo l’unica scelta possibile. Avviata la produzione nel luglio 1983, a Toronto, questa fu stoppata da un imprevisto. Il produttore Dino De Laurentiis, che aveva Schwarzenegger sotto contratto per Conan: Il Distruttore, esercitò un’opzione nel contratto che lo avrebbe reso indisponibile per nove mesi mentre stava girando il suo film. In quel periodo di stasi, piuttosto che rinunciare al suo Terminator, Cameron si prese una pausa e iniziò a lavorare ad alcuni script per la 20th Century Fox che si mostrò interessata al lavoro di scrittura compiuto con Terminator. La Fox decise di assegnargli non uno ma ben due incarichi.

Lo script di Rambo 2 – La vendetta e quello, soprattutto, di Aliens. Parallelamente decise di ridefinire alcuni passaggi narrativi di Terminator perché la Orion Pictures si dimostrò molto pressante e facile ai suggerimenti. Uno di questi riguardava la creazione di un androide canino per Reese (rifiutato seccamente!), l’altro era quello di rafforzare il subplot della dinamica amorosa tra lui e Sarah (che invece colse al volo). Per ognuno di questi progetti Cameron decise di scrivere di notte, dedicando a ogni notte uno script diverso ma soprattutto a una scrivania diversa, in modo da tenere le idee separate. Bevve molto caffè in quel periodo. Un’abitudine di cui riuscì a liberarsi soltanto all’inizio degli anni Novanta di T2 – Il Giorno del Giudizio. Superati i nove mesi, ecco quindi il vero inizio della lavorazione di Terminator.

Sul set si respirava un’energia insolita e potente ogni volta che Schwarzenegger si trovava in scena: «Ero pietrificato all’inizio di Terminator. Innanzitutto, lavoravo con una star, o almeno io lo consideravo una star all’epoca. Arnold ne è uscito ancora più star. Sceglierlo come nostro Terminator non avrebbe dovuto funzionare. Sarebbe potuto essere un tizio di un’unità di infiltrazione. Non c’è modo che tu non riesca a individuare un Terminator in mezzo alla folla all’istante se tutti assomigliassero ad Arnold. Non aveva alcun senso. Ma la bellezza dei film è che non devono essere logici. Devono solo avere plausibilità. Il film assunse ben presto una patina più grande della vita. Mi ritrovai sul set a fare cose che non pensavo avrei fatto: scene che erano semplicemente orribili e che semplicemente non potevano esserlo, perché ora erano troppo appariscenti».

Il risultato fu che quasi tutto Terminator fu girato in piena notte secondo quella che Cameron era solito chiamare come Cinema di Guerilla. Per aggirare l’acquisizione dei permessi necessari a girare certe scene, Cameron costringeva troupe e attori ad arrivare rapidamente in una posizione specifica, girare la scena, e andarsene prima dell’arrivo della polizia. Molte delle comparse nel film erano cittadini comuni completamente ignari di essere stati filmati. Non è un caso, infatti, se tra i membri della troupe iniziò a girare una maglietta con su scritto «Non puoi spaventarmi, lavoro per James Cameron!». A detta di Schwarzenegger: «James è un maniaco del controllo, ha gli occhi nella parte posteriore della testa. Conosce il nome di tutti sul set e non gli sfugge nessun errore, ma se sbagli tu, fa una scenata in pubblico».

Eppure fu efficace, perché il prodotto finito Terminator è un film dal ritmo registico vertiginoso: veloce, spielberghiano, fatto di riprese secche rese armoniche da un montaggio netto e asciutto, che a quarant’anni di distanza da quel 26 ottobre 1984 che lo vide approdare nelle sale statunitensi, non sembra aver perso un grammo della propria intensità filmica e velocità d’esecuzione. Un film piccolo nelle dimensioni ma grande nella portata: «È stata l’esperienza più pura, la più economica e dall’aspetto più scadente di tutta la mia carriera di regista» dirà Cameron in merito. Il problema è che a lavorazione ultimata non ci credeva praticamente più nessuno tra gli executives. Daly e Medavoy, per ridurre i costi, volevano che il film finisse subito dopo l’esplosione del camion, così da eliminare il climax alla fabbrica e l’importantissimo epilogo all’alba, non Cameron però.

«Daly disse: ‘Il film deve finire subito dopo l’esplosione di quel dannato camion.’ Gli ho detto chiaro e tondo: ‘Vaffan*ulo! Il film non è ancora finito». Fece marcia indietro e si disinteressò completamente della post-produzione del film. Lo stesso può dirsi di Medavoy. La Orion Pictures vedeva Terminator come un semplice veicolo di soldi facili a basso budget (che lievitò comunque nonostante tutto). Un b-movie insomma, e non poteva essere altrimenti per una società abituata a trattare film del calibro di Amadeus e Platoon. Il risultato fu che il supporto pubblicitario per Terminator fu praticamente irrisorio: «Mi hanno detto che, quando hai un thriller d’azione sporco, il film può durare al botteghino per circa tre settimane o più. Stanno trattando il film come fosse m***a di cane!». Per la cronaca il film incassò 78 milioni di dollari world-wide.

Una cifra notevole ma comunque non all’altezza delle aspettative di Cameron e Schwarzenegger, e nemmeno di Terminator stesso che riuscì comunque ad entrare talmente nell’immaginario collettivo da dar vita a un franchise da cinque sequel e due serie televisive (Terminator: The Sarah Connor Chronicles, Terminator Zero) e a solleticare l’attenzione del regista russo Andrej Tarkovskij. Pur non apprezzando il cinema mainstream, l’autore di Solaris e Stalker elogiò il concept del film: «Con la sua visione del futuro e la relazione tra l’uomo e il suo destino, Terminator ha ampliato i confini del cinema come arte» e tanto basta per guadagnarsi l’immortalità del tempo.
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