ROMA – Intanto il titolo, perché nella fattispecie, il significato della parola Stalker non è quello di uso comune. Deriva dal romanzo da cui è tratto: Picnic sul ciglio della strada. Un romanzo di fantascienza dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij del 1972. Un capolavoro, pubblicato in 38 edizioni e in oltre 20 lingue diverse. E tra le pagine di quel romanzo, lo Stalker è il soprannome comune degli uomini impegnati nell’impresa illegale di prospezione e contrabbando di artefatti alieni fuori dalla cosiddetta Zona. Sono cercatori e cacciatori. Su ammissione dei fratelli Strugackij, la parola è ispirata al romanzo avventuroso Stalky & C., di Rudyard Kipling, del 1899. Si tratta di una raccolta di nove racconti ambientati negli anni Settanta dell’Ottocento in un collegio inglese del Devonshire. I protagonisti erano tre giovani. Tra questi c’era Arthur Lionel Corkran detto Stalky.
Nei suoi diari, però, Andrej Tarkovskij non nascose mai il riferimento alla più comune – e primaria – accezione della parola Stalker. E quindi perseguitare, ossessionare(si), strisciare. Ne cambiò, quindi, i connotati in termini caratteriali e semantici per il suo adattamento cinematografico. Concepì, infatti, lo stalker, come una guida professionale della Zona, è vero, ma anche come qualcuno con la capacità e il desiderio di attraversare il confine verso un luogo pericoloso e proibito con uno specifico – e mai domo – obiettivo: provare a rendere felici gli altri, i viaggiatori lì con lui. Su ammissione di Tarkovskij: «Anche questo è ciò di cui parla Stalker: l’eroe attraversa momenti di disperazione in cui la sua fede viene scossa, ma ogni volta arriva a un rinnovato senso della sua vocazione nel servire le persone che hanno perso le loro speranze e illusioni».
Fu questa la chiave interpretativa che spinse Tarkovskij alla realizzazione per immagini di Stalker. Un progetto che inizialmente lo avrebbe visto unicamente come produttore, con l’amico e collega Mikhail Kalatozov a curarne la resa. Questo finché Kalatozov non abbandonò il progetto dopo non essere riuscito a strappare un accordo ai fratelli Strugackij. Infine proprio Tarkovskij che vide l’adattamento come l’opportunità di espandere i concetti espressi nell’opera letteraria. Ad affascinarlo fu l’idea narrativa della Zona come strumento drammatico con cui realizzare un film conforme alla classica unità aristotelica (una singola azione, unico luogo, un singolo punto nel tempo), da cui far emergere le personalità dei tre protagonisti. Quei Professore (Nikolaj Grin’ko), Scrittore (Anatolij Solonicyn), Stalker (Aleksandr Kajdanovskij) più funzioni caratteriali che compiuti agenti scenici, messi al servizio di una narrazione allegorica di distopia oppressiva densa, complessa, contraddittoria ma infinitamente magica nel raccontare di coscienza, desiderio e dell’importanza di sognare.
Non c’è arma migliore del sogno e dei desideri che albergano nel proprio cuore per affrontare un mondo secolare e razionale, freddo e granitico. Ed è di questo che parla Stalker: l’essenza dell’uomo («Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido. Rigidità e forza sono compagni della morte, debolezza e flessibilità esprimono la freschezza dell’esistenza»), i meandri del cuore, la natura del desiderio. Un anelito verso qualcosa di irraggiungibile ma che dà calore, che è fuori dalla nostra portata ma che allo stesso modo appare intrinseco alla natura stessa dell’individuo: il bisogno di amare e di dare amore, o per dirla con le parole dell’autore: «In Stalker esprimo il mio pensiero fino in fondo: l’amore umano è il miracolo che si può contrapporre a qualunque arida teorizzazione secondo cui non c’è speranza per il mondo» e che del film è lezione morale.
Tarkovskij ne mette a corrente lo spettatore nella penultima sequenza, nel confronto tra lo Stalker e sua moglie (Alisa Frejndlich) che sceglie di stargli accanto nonostante tutto. Perché nel corso di quel viaggio, nel contesto della stagnazione tardo-sovietica, Tarkovskij mette in dialogo cinico empirismo e colorato idealismo allargandone il contrasto sino alla morfologia stessa del contesto scenico, opponendo il decadimento industriale, l’inquinamento, l’alienazione e la repressione politica del mondo esterno, con il regno di bellezza, mistero e nuove possibilità di una Zona come utopia nel mondo anti-utopico della società moderna. Una via di fuga sognante dai vincoli di una società in preda ad un’apocalisse di sentimenti e in decomposizione valoriale che se in Picnic sul ciglio della strada fu descritta come un chiaro luogo di visite aliene, qui appare più come una visione di near-future di ciò che sarà poi la zona di esclusione di Chernobyl, istituita nel 1986.
Una suggestione tutt’altro che fantasiosa. Il soprannome con cui la gente del luogo era solita chiamare le persone impiegate al presidio dell’area contaminata era proprio stalkers. Altra opinione della critica è quella secondo cui, in realtà, l’enigmatica Zona, come luogo in cui: «Si compirà il vostro desiderio più segreto, quello più sincero, quello più sofferto. Non bisogna dire niente, basta concentrarsi e cercare di ricordare tutta la vita», può essere interpretabile come esteriorizzazione del potere immaginifico del cinema. E quindi come un luogo tangibile in cui le immagini mutano dinanzi agli occhi dello spettatore assumendo nuova forma creativa. Un’interpretazione colorita, romantica, ma che ha poco a che vedere con il Tarkovskij-pensiero: «La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero».
Il resto, in Stalker, è la tipica attenzione registica di un autore immenso che dialoga con il mezzo filmico realizzando cinema come istantanee di vita reale. Frammenti di tempo disgregati resi mosaico da un montaggio che ne cuce le estremità senza darvi soluzione di continuità temporale. Tutto è sospeso, illusorio e sognante in Tarkovskij. Nelle sue 142 inquadrature in 163 minuti, Tarkovskij va a comporre Stalker di lunghe riprese fatte di movimenti di macchina lenti, sottili, quasi impercettibili nella sua eleganza, che predilige il campo lungo e il primo se non primissimo piano, così da giocare con la ricca profondità di campo. E poi le aliene distorsioni sonore, il soffermarsi sui suoni ambientali con cui trasmettere inquietudine nei sovrumani silenzi esistenziali, e le scelte cromatiche che vanno dal monocromatico marrone ad altro contrasto nelle sequenze urbane a quelle colorate nella Zona.
Tranne che nel climax, perché in quell’ultima inquadratura, quando tutto appare vuoto, perduto ed è lo sterile monocroma a regnare avvolgendo del tutto la scena, Tarkovskij fa tornare il colore raccontando allo spettatore di poesia, magia e poteri telecinetici sulle notte dell’Inno alla Gioia di Beethoven, quasi come a dare un ultimo barlume di speranza al mondo di Stalker e ai suoi agenti scenici. La perfetta conclusione per un’opera meravigliosa e immaginifica che a quarantacinque anni di distanza da quel 25 maggio 1979 che lo vide approdare al cinema in terra sovietica – e a quarantaquattro dalla presentazione mondiale a Cannes 33 fuori concorso – proprio non vuole smettere di stupire, emozionare e far riflettere. E dire come a un certo punto, per come si erano messe le cose durante la lavorazione, Stalker non sarebbe nemmeno dovuto esistere.
Dopo circa un anno di riprese a Tallinn, in Estonia, assieme al DoP Georgi Rerberg, Tarkovskij scoprì di ritorno da Mosca che tutto il lavoro era da buttare. I laboratori di Mosca, infatti, svilupparono in modo improprio il materiale. Questo per via della scelta di girare Stalker su pellicola Kodak 5247. Un supporto relativamente nuovo per l’epoca. Di certo lo fu per i tecnici sovietici. Ancor prima del problema delle scorte di pellicola, i rapporti di Tarkovskij con Rerberg si erano ampiamente deteriorati. Non deve sorprendere scoprire come Tarkovskij, a questo punto delle riprese, fosse sul punto di abbandonare il film. Poi l’intuizione. Nonostante l’iniziale parere contrario della Mosfilm, Tarkovskij riuscì a realizzare Stalker in due parti in modo da avere più fondi e nuove scadenze. E con un nuovo DoP: Alexander Knyazhinsky.
Il risultato fu una lavorazione impressionante, in tre fasi, da oltre cinquemila metri di pellicola che si dice fosse molto distante dal cut originario andato perduto. Parola dello stesso Tarkovskij che su specifica domanda rispose alla sua maniera: «Beh, nessuna madre dà alla luce lo stesso figlio due volte». Nemmeno quattro anni dopo sarà la volta di Nostalghia, e poi Sacrificio, nel 1986. L’ultimo atto e forse l’opera più complessa e che per certi versi rappresenta il proseguo tematico di Stalker (che trovate in streaming su Prime Video e sul canale Youtube della Mosfilm), ma quella è tutta un’altra storia…
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