ROMA – Nel 2002 la Marvel e la Sony di fatto gettarono le basi del cinecomic moderno che sarebbe poi stato consolidato dall’inizio del MCU. Fu infatti quello l’anno di Spider-Man di Sam Raimi, opera ibrida che nella sua miscellanea proibita di melò, eroismo ed action su base fumettistica, (ri)lanciò l’Uomo Ragno, nell’olimpo del cinema di Hollywood. Con i suoi 821 milioni e mezzo di dollari, Spider-Man divenne, al tempo il cinefumetto con il più alto incasso, finendo la corsa al box office soltanto dietro a due colossi letterari come Harry Potter e la camera dei segreti e Il Signore degli Anelli – Le due torri. A quel punto che si iniziasse a parlare di Spider-Man 2 – che di milioni di dollari al box-office ne avrebbe poi incassati oltre 780, per la cronaca – sembrò la cosa più naturale possibile.
Pensate che i primi vagiti del sequel risalgono addirittura all’aprile 2002. Ovvero quando Alfred Gough e Miles Millar – poi seguiti da David Koepp – furono ingaggiati per realizzare uno script che comprendesse e portasse nella storia Doctor Octopus, Lizard e Gatta Nera come villain. Sarà cestinato, ma la Sony ambiva davvero al massimo con Spider-Man 2: oltre 200 milioni di dollari di investimento, un budget monstre per l’epoca (e per il genere). Il titolo provvisorio? Un titolo che sarà poi debitamente riciclato dieci anni più tardi: The Amazing Spider-Man. Nonostante la fiducia nel progetto però, quella di Spider-Man 2 fu un’autentica odissea creativa alle soglie del development-hell. Nel settembre dello stesso anno venne assunto Michael Chabon per riscrivere lo script a cui diede un certo sapore teen: il suo Spider-Man 2 immaginava infatti un Octopus ringiovanito pronto a contendersi con Peter Parker l’amore di Mary Jane Watson.
Inoltre – in funzione degli eventi del precedente Spider-Man – Harold Theopolis Osborn noto come Harry Osborn avrebbe messo una taglia su Spidey (elemento che sarà poi riletto e incluso nello script definitivo). Qui entrò in scena Alvin Sargent e la sua visione che traeva ispirazione invece dall’albo No More! spingendo più sull’aspetto emozionale del cosiddetto peso del mantello e del relativo conflitto interiore del protagonista. Il produttore Avi Arad con Raimi diedero il benestare, specie per quel sapore del conflitto che fece grande Superman II vent’anni prima. La grande innovazione al racconto fornita da Sargent era ascrivibile principalmente alla caratterizzazione del ruolo di Octopus. Nei piani di Raimi infatti il villain di Spider-Man 2 avrebbe dovuto avere un interessante arco narrativo: una figura positiva per Peter, un mentore che poi nel mondo straordinario di Octopus avrebbe visto Spider-Man cercare in lui la redenzione, non il più canonico annientamento.
Un’azione in controtendenza ora con le tipicità narrative del genere, ora con lo stesso capitolo precedente. Laddove infatti in Spider-Man la dicotomia tra Bene e Male alla base del racconto risultava decisamente acuita nel doppio piano Peter Parker/Spidey-Norman Osborn/Goblin, ecco in Spider-Man 2 un’inerzia ancor più sfumata ma ugualmente efficace tra Otto Octavius/Doctor Octopus. Che ci crediate o meno però, a un certo punto del 2003 si è rischiato di arrivare ai nastri di partenza della lavorazione senza Tobey Maguire. Al tempo si vociferò di un curioso incidente da cavallo durante le riprese di Seabiscuit – Un mito senza tempo che avrebbe potuto costargli la carriera. Poi smentito, o perlomeno, orchestrato ad arte da Maguire e il suo agente. Il motivo? Avere più soldi da Marvel e Sony. Nelle loro intenzioni, dai 4 milioni di dollari di Spider-Man si sarebbe dovuti facilmente arrivare a 30 milioni di dollari…o quasi.
Scoperto il bluff, l’attore fu licenziato in tronco e venne assunto Jake Gyllenhaal – al tempo fidanzato di Kirsten Dunst – che per poche settimane fu il nuovo volto di Spider-Man. Un’anomalia? Nemmeno più di tanto visto che la quadrilogia classica di Batman targata Tim Burton e Joel Schumacher vide tre differenti Bat-Men in meno di un decennio: Michael Keaton, Val Kilmer e George Clooney. Resosi conto della pessima figura come professionista – e probabilmente anche malconsigliato – Maguire fece marcia indietro. Riassunto da Marvel e Sony, riuscì perfino a rinegoziare il contratto ottenendo un adeguamento da 17 milioni di dollari. Per Gyllenhaal, vicinissimo come non mai al ruolo di Spider-Man, fu soltanto un arrivederci. Quindici anni dopo passerà infatti sul fronte opposto prestando il volto al Mysterio allo Spider-Man 2 del MCU, vale a dire Spider-Man: Far From Home.
Tra primo e secondo capitolo della trilogia di Spider-Man di Sam Raimi esiste come una sorta di rapporto sinergico. Una relazione compenetrante che per sviluppo e dinamiche rievoca, e non poco, quella dei primi due capitoli di Superman per mano di Richard Donner & Richard Lester. Proprio come Superman infatti Spider-Man si caratterizza di una narrazione che è un po’ un salto nel buio creativo, un agire con i piedi di piombo dovuto alla necessità di delineare la grammatica filmica in un terreno narrativo irto, praticamente inesplorato. Per certi versi il primo capitolo di Raimi marca molto l’elemento romantico e la struttura in sé – tra cammino dell’eroe e sviluppo – è decisamente tipizzata. È tuttavia in Spider-Man 2 che – proprio come accaduto con Superman II – l’intera materia narrativa spicca il volo.
La via è tracciata, il sentiero spianato. Con Spider-Man 2 Raimi spinge al massimo sulla coscienza dell’eroe. L’intero racconto affonda infatti le radici nel confitto interiore di Peter Parker/Spider-Man: due dimensioni caratteriali opposte e dai bisogni antitetici. Un dualismo marcato – rievocante ex-ante quello poi costruito da Nolan e il suo Bruce Wayne/Batman ne Il cavaliere oscuro – che ruota attorno all’esistenziale peso del mantello sino a sfociare nell’esteriorità e in dei mini-conflitti che danno colore al protagonista-principe e, di riflesso, alle dinamiche relazionali in essere. Qualcosa che nel ricalcare un po’ le dinamiche di Superman II e la scelta di Clark di rivelarsi o meno a Lois, permette a Raimi di giocare con la valenza della rivelazione e le intenzioni anticipandola, rimandandola, forzandola, perfino rinunciandoci a un certo punto.
Sino a guidare Peter – e di riflesso lo spettatore – in una narrazione dal ritmo netto con cui passare dal costume gettato nel cassonetto come rinuncia alla chiamata (e relativo accesso al mondo narrativo straordinario) scegliendo invece la propria vita civile, infine recuperato per sensi di colpa, accettazione del proprio dono e relative conseguenze. Il tutto agisce sullo sfondo di una dicotomia bene/male, come detto, smussata e sfumata, che dall’altra parte della barricata vede un villain/non-villain. Il Doc Ock di Molina è forse l’antagonista che tutti i cinecomic dovrebbero avere e ce l’ha Spider-Man 2! Un antieroe dalla caratterizzazione compiuta e dal conflitto interiore marcato ed empatico che unisce alla bontà d’animo dello scienziato visionario e dell’uomo innamorato la privazione del raziocinio a seguito dell’incidente che lo spingere ad agire come un villain piuttosto che da cattivo a tutto tondo alla maniera di Osborn.
È evidente come Spider-Man 2 sia una narrazione decisamente atipica nelle sue componenti basilari. Lo stesso può dirsi di tutto ciò che c’è intorno al racconto. L’elemento melò che trasuda, ad esempio, dal rapporto tra Mary Jane e Peter, è si più marcato ma al contempo più intenzionale e meno stucchevole. Lo stesso può dirsi per le sequenze action, decisamente meglio calibrate tra i volteggi, la nascita horror di Octopus, la sequenza in banca, la torre dell’orologio, trovando infine l’apogeo nella macro-sequenza del treno che racchiude in sé l’intera magia della trilogia di Spider-Man di Sam Raimi: azione, buoni sentimenti e colpi di scena. Intenti innovativi che trovano conferme in un climax atipico che pone al centro della risoluzione scenica non tanto la sconfitta del villain quanto – come detto da principio – la sua redenzione.
Attorno alla presa di coscienza di Octopus e il ritorno come Octavius, Raimi costruisce il momento topico del racconto passando così per la rivelazione di Peter a Mary Jane, sino all’accettazione da parte di Harry del suo retaggio da Goblin. Un evento d’importanza basilare nell’economia del racconto di Spider-Man 2 che nel passare dalla risoluzione dei conflitti interiori agisce, di riflesso, su quello esteriore ponendo infine le basi drammaturgiche per il terzo (e ultimo) capitolo. Il risultato? Formidabile, basta andare a rileggere le parole di Kevin Feige al tempo della pre-produzione di Captain America: Civil War, ovvero di quando si cercava in tutti i modi di introdurre Spider-Man nel Marvel Cinematic Universe: «Credo che Spider-Man 2 sia uno dei migliori film di supereroi di sempre».
In quel mix di sentimenti, action ed umorismo, si cela infatti il cuore narrativo che la Marvel ha cercato di replicare in ogni capitolo di ogni Fase dell’MCU – da Iron Man sino a Guardiani della Galassia Vol.3 – mancando il più delle volte l’obiettivo per via del meccanismo industriale disneyano. Quella di Raimi era magia spontanea, esattamente com’era spontanea la semplicità di intenti con cui asciugare il conflitto scenico ricercando figure paterne tra Zio Ben, Norman Osborn e Otto Octavius sullo sfondo della guerra tra il Bene e il Male. Una magia del tutto assente nella ricalibratura alla John Hughes di Spider-Man: Homecoming per poi essere vagamente respirata nell’ambizioso ret-con che prende il nome di Spider-Man: No Way Home. Prima di tutto però ci fu Raimi e quella trilogia che trovò in Spider-Man 2 il suo apogeo creativo e produttivo: il secondo passo per il cinecomic moderno.
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