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Andrej Rublëv | Andrej Tarkovskij, la Russia e l’arte come atto di ribellione

Anatoly Solonitsyn, la genesi, Cannes 1969, l’omonimia sportiva. Storia di un film straordinario

Anatoly Solonitsyn nei panni di Andrej Rublëv
Anatoly Solonitsyn nei panni di Andrej Rublëv

ROMA – Oggi il nome Andrej Rublëv riporta subito alla mente l’omonimo tennista classe 1997, numero 7 nella classifica ATP, medaglia d’oro a Tokyo 2020 e dal futuro tutto da scrivere, ma c’è stato un tempo in cui Andrej Rublëv poteva riferirsi solo e soltanto a un uomo, un artista. Un pittore di icone religiose attivo nella prima metà del Quattrocento per la precisione. Della sua vita si sa ben poco. Da quel che gli storici hanno potuto ricostruire tra gli scarni aneddoti sappiamo che Rublëv divenne monaco e passò molti anni della sua vita nel monastero della Trinità di San Sergio (il più importante centro spirituale della Chiesa russa). Nel 1405 decorò con icone e affreschi la Cattedrale dell’Annunciazione del Cremlino di Mosca, lavorando assieme a Teofane il Greco e allo starec Prochor di Gorodec.

Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij fu presentato in terra sovietica il 16 dicembre 1966
Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij fu presentato in terra sovietica il 16 dicembre 1966

Altre fonti riportano come nel 1408 Rublëv realizzò icone presso la Cattedrale dell’Assunzione di Vladimir e pochi anni dopo, tra il 1425 e il 1427 presso la Cattedrale della Trinità nel Monastero di San Sergio. In seguito si spostò al Monastero di Sant’Andronico a Mosca dove dipinse il suo ultimo lavoro, gli affreschi della Cattedrale del Salvatore, prima dell’avvenuta morte il 29 gennaio 1430. Con il suo stile capace di combinare un alto ascetismo e l’armonia classica di derivazione bizantina, nel 1551, a Mosca, il Concilio dei Cento Capitoli elesse l’iconografia di Rublëv come il modello da seguire per ogni pittura ecclesiastica. Manco a dirlo, i tentativi di imitazione furono tantissimi, al punto che – nonostante una ricchissima produzione artistica – l’unica opera che gli è stata interamente attribuita è l’Icona della Trinità.

«La sua arte era una protesta contro il disordine che regnava in quel momento. Vivendo in un momento terrificante arrivò la necessità di creare e portare avanti un'ideale di fratellanza e di amore per la pace. Una radiosa visione della Russia unita di fronte al giogo tartaro».
«La sua arte era una protesta contro il disordine che regnava in quel momento. Vivendo in un momento terrificante arrivò la necessità di creare e portare avanti un’ideale di fratellanza e di amore per la pace. Una radiosa visione della Russia unita di fronte al giogo tartaro».

Conservata oggi presso la Galleria statale di Tret’jakov, a Mosca, l’opera – una delle produzioni religiose più famose di tutti i tempi – raffigura i tre angeli in visita ad Abramo. Il retaggio artistico di Andrej Rublëv ci racconta di un’artista straordinario capace di trasmettere pace, calma e compostezza in ognuna delle sue opere, eppure c’è molto più di questo. Che poi è la ragione per cui Andrej Tarkovskij scelse Andrej Rublëv del 1966 come seconda regia eccellente all’indomani di quel L’infanzia di Ivan opera prima del 1962: «La sua arte era una protesta contro il disordine che regnava in quel momento. Vivendo in un momento terrificante arrivò la necessità di creare e portare avanti un’ideale di fratellanza e di amore per la pace. Una radiosa visione della Russia unita di fronte al giogo tartaro».

L'Icona della Trinità di Andrej Rublëv
L’Icona della Trinità di Andrej Rublëv

Del resto l’idea del processo creativo secondo Tarkovskij è quella secondo cui: «Un artista non lavora mai in condizioni ideali. Se esistessero la sua opera non esisterebbe perché vivrebbe nel vuoto. Deve esistere una sorta di pressione. L’artista esiste perché il mondo non è perfetto. Se così fosse l’uomo non cercherebbe l’armonia, semplicemente vivrebbe in essa. L’arte nasce da un mondo mal progetto. Questo è il problema in Andrej Rublëv». Ed ecco quindi perché Tarkovskij scelse di proporre alla Mosfilm proprio questo concept nel 1961. Da una parte un chiaro intento agiografico, dall’altra servirsi di Rublëv e del suo ruolo di icona senza tempo, per raccontare – oltre che della forza della fede, della forbice valoriale tra conoscenza e ignoranza, di sacrificio e delle pulsioni degli uomini – del potere dell’arte nell’eterna battaglia tra bene e male.

«Tu fonderai campane, io dipingerò icone»
«Tu fonderai campane, io dipingerò icone»

Perché per Tarkovskij bene e male non sono opposti dicotomici, ma elementi complementari che esistono e coesistono: non c’è l’uno senza l’altro. L’arte diventa così un rifugio, un rimedio per lenire il dolore del mondo esterno: un atto d’amore insomma. Come negli ultimi momenti dell’episodio La campana, 1423, dove l’autoindotto silenzio di Andrej Rublëv come penitenza per i suoi peccati terreni viene interrotto da quello spiazzante e dolcissimo: «Tu fonderai campane, io dipingerò icone» rivolto al giovane Boriska. Specie perché poi l’intuizione del montaggio di Tarkovskij va a chiudere Andrej Rublëv in un susseguirsi di frammenti a colori di opere dell’autore che vanno a fondersi in dissolvenze incrociate dalla bellezza ineguagliabile. Una scelta, la transizione cromatica, da intendersi come il simbolo della co-dipendenza dell’arte di un artista e della sua vita personale.

Anatoly Solonitsyn nei panni di Andrej Rublëv
Anatoly Solonitsyn nei panni di Andrej Rublëv

A suo dire: «La vita di Andrej Rublëv è in bianco e nero, la sua arte a colori. Nella vita di tutti i giorni non si notano i colori consapevolmente». Infine la sequenza dei quattro cavalli al fiume, sotto la pioggia, come simbolo di vita. Perché l’arte di Andrej Rublëv deriva dalla vita e dagli stimoli del mondo esterno. Il male di Andrej Rublëv invece, oltre alle debolezze terrene degli individui dalla fede tutt’altro che incrollabile, sono i Tartari e le loro scorribande violente. Scegliere un progetto simile, ambientato nel Quattrocento russo, realizzato attraverso dialoghi densissimi e un bianco-e-nero grezzo e poetico, è da intendersi quindi come un atto di sovversione politica. È l’arte che con la sua bellezza si oppone alla coercizione del potere dei Tartari di ieri traslandosi nell’autorità russa della contemporaneità di Tarkovskij.

«La vita di Andrej Rublëv è in bianco e nero, la sua arte a colori. Nella vita di tutti i giorni non si notano i colori consapevolmente»
«La vita di Andrej Rublëv è in bianco e nero, la sua arte a colori. Nella vita di tutti i giorni non si notano i colori consapevolmente»

Specie tenendo conto di come, fin dai primi draft firmati Tarkovskij e Andrei Konchalovsky, nessuno aveva in mente di concepire Andrej Rublëv come un biopic canonico dal marcato taglio storiografico. Piuttosto da intendersi come un voler mostrare la connessione tra Andrej Rublëv e la sua epoca di riferimento, e in che modo l’artista ha saputo maturare e sviluppare il proprio talento. Un’origin story in buona sostanza. Eppure, quando la Mosfilm ricevette la proposta per poi approvare, tra il 1962 e il 1963 il primo trattamento, nessuno si rese conto della portata rivoluzionaria del progetto. Nei successivi due anni Tarkovskij e Konchalovsky lavorarono allo script studiando scritti, cronache medievali e libri di storia e arte medievali. Questo finché, nell’aprile 1964, non sottoposero lo script definitivo alla Mosfilm che diede il loro il benestare.

Lo script di Andrej Rublëv è co-firmato Tarkovskij e Andrej Konchalovsky
Lo script di Andrej Rublëv è co-firmato Tarkovskij e Andrej Konchalovsky

Parallelamente lo script fu pubblicato sulla rivista cinematografica Iskusstvo Kino e fu oggetto di dibattiti tra storici, critici cinematografici e lettori ordinari, a proposito della veridicità storica e sociopolitica, non tanto di tipo artistico. Per il cast di Andrej Rublëv invece, nessun dubbio per Tarkovskij, con il semi-sconosciuto Anatoly Solonitsyn nel ruolo da protagonista scovato dal regista in un teatro di Sverdlovsk. Solonitsyn si approcciò al ruolo dopo aver letto dello script proprio su Iskusstvo Kino. Ne rimase talmente entusiasta da recarsi a Mosca, a sue spese, pur di incontrare Tarkovskij che dell’incontro dichiarerà poi: «Con Solonitsyn sono stato semplicemente fortunato. Un volto come il suo era dotato di una grande forza espressiva in cui risplendeva una demoniaca risolutezza». Per Rublëv era in cerca di un interprete della cinematografia russa che non fosse particolarmente noto.

Andrej Rublëv è stato un pittore di icone religiose attivo nel Quattrocento dall'attività leggendaria
Andrej Rublëv è stato un pittore di icone religiose attivo nel Quattrocento dall’attività leggendaria

Il motivo? Evitare agli spettatori il ricordo di altri ruoli in modo da rendere la sua interpretazione ancora più autentica e unica. Ironicamente Solonitsyn finì con il diventare un feticcio di Tarkovskij che lo scritturò nei successivi Solaris, Lo specchio e Stalker. Iniziate le riprese soltanto nell’aprile 1965, il budget di Andrej Rublëv fu soggetto a numerose revisioni da parte della Mosfilm. Dall’iniziale 1,6 milioni di rubli fu tagliato a poco più di uno a causa di molteplici tagli allo script originale. Una cifra irrisoria se consideriamo che Guerra e Pace di Sergei Bondarchuk costò otto milioni e mezzo di rubli, che rende lo sforzo registico di un kolossal storico di oltre tre ore di minutaggio sul Cristianesimo come assioma dell’identità storica della Russia, ancora più straordinario. I pesanti interventi del Goskino in post-produzione incisero però, e non poco, sull’integrità di Andrej Rublëv.

La Campana, 1423, l'episodio più evocativo e struggente della pellicola
La Campana, 1423, l’episodio più evocativo e struggente della pellicola

Il primo cut, intitolato La Passione Secondo Andrej Rublëv, vide il minutaggio originale di 195 minuti modificato drasticamente poco prima della distribuzione (il film fu presentato il 16 dicembre 1966 al Dom Kino di Mosca). Il Goskino chiese tagli al film nelle scene eccessivamente lunghe che mostravano nudità, violenza ed elementi negativi. Tarkovskij completò questa prima versione licenziandola a 190 minuti esprimendo delle obiezioni in merito in una lettera ad Alexey Romanov, il presidente del Goskino in persona. In tutta risposta il secondo cut non fu accolto benevolmente dall’organo istituzionale che chiese ulteriori tagli. A questo punto Andrej Rublëv vide il suo minutaggio ridotto a 186 minuti. Nonostante tutto le sequenze di tortura del monaco con la pece da parte dei Tartari e quella del cavallo ucciso da una lancia non furono toccate.

Il film finì nell'occhio del ciclone per alcune scene di violenza gratuita sugli animali (non questa in particolare, la mucca rimase illesa)
Il film finì nell’occhio del ciclone per alcune scene di violenza gratuita sugli animali (non questa in particolare, la mucca rimase illesa)

Alla prima sovietica la risposta del pubblico fu entusiasta, e questo tenendo conto della rappresentazione naturalistica della violenza del film, di parere contrario il Comitato Centrale del Partito Comunista che accusò Andrej Rublëv di essere antistorico, di non aver rappresentato degnamente il contesto narrativo dell’eroe protagonista – ovvero il rapido sviluppo delle grandi città e la lotta contro i Tartari – scrivendo nelle proprie motivazioni come: «L’erroneità ideologica del film non è suscettibile di dubbio». In altri termini: il Partito Comunista comprese la ratio al centro della narrazione di Andrej Rublëv, la sua natura sovversiva, cosa che i lettori ed esperti del Iskusstvo Kino non colsero minimamente. Parallelamente l’interesse attorno ad Andrej Rublëv crebbe talmente da essere invitato fuori concorso a Cannes20, nel 1967, assieme a Guerra e Pace in occasione dei cinquant’anni di Ottobre di Sergei Eisenstein.

A Cannes 22 Andrej Rublëv fu presentato fuori concorso il 23 maggio 1969
A Cannes 22 la pellicola fu presentata fuori concorso il 23 maggio 1969

La risposta ufficiale fu che Andrej Rublëv non era ancora stato ultimato e non poteva essere proiettato a un festival perlopiù prestigioso come Cannes. La verità è che il governo russo stava facendo ostruzione nemmeno troppo velata sulla sua distribuzione. Due anni dopo, a Cannes22, i sovietici permisero ad Andrej Rublëv di essere proiettato, purché fuori concorso. Il risultato? Fecero talmente pressioni sugli organizzatori da costringerli a relegarlo ad un orario scomodissimo. Chi avesse voluto vedere Andrej Rublëv a Cannes l’avrebbe potuto fare l’ultimo giorno di festival, il 23 maggio 1969, in una proiezione fissata alle 4 del mattino. I loro sforzi saranno vani. Non solo Tarkovskij verrà insignito del premio speciale FIPRESCI della Critica, ma lo sforzo congiunto di Baba Yaga Distribution e Potemkine Films ne permetterà la distribuzione nel mercato francese nel dicembre successivo.

Il celeberrimo prologo di Andrej Rublëv
Il celeberrimo prologo di Andrej Rublëv

In patria, intanto, il regista Grigori Kozintsev, il compositore Dmitri Shostakovich, l’editore del Iskusstvo Kino Yevgeny Surkov fecero pressioni sul governo affinché Andrej Rublëv potesse vedere il buio della sala cinematografica. Nonostante il rifiuto di Tarkovskij di compiere ulteriori tagli il film fu distribuito nelle sale russe il 24 dicembre 1971 – ben cinque anni dopo la sua resa filmica – nella versione originale da 186 minuti. Uscito in oltre 270 copie, nonostante non ci fosse un’immagine promozionale che fosse una in giro per Mosca, tutti i cinema registrarono il tutto esaurito a ogni proiezione. Non fu comunque la fine delle ostilità per Andrej Rublëv. Nel 1973 fu trasmesso in televisione in una versione da 101 minuti mai autorizzata da Tarkovskij che mostrò, tra l’altro, l’epilogo in bianco e nero. Lo stesso si ripeté nel 1987.

Uno degli shot più evocativi di Andrej Rublëv
Uno degli shot più evocativi di Andrej Rublëv

Peggio del Goskino fece il distributore americano, quella Columbia Pictures che nell’ottobre 1973 ridusse Andrej Rublëv a 166 minuti fino a renderlo un pasticcio incoerente e inguardabile a detta di molti critici che poterono vedere il cut originale a Cannes. Di Andrej Rublëv, in realtà, esiste un’ulteriore versione – a conti fatti l’unica – la Director’s Cut di Tarkovskij (recentemente presentata a Venezia80), ovvero come Andrej Rublëv sarebbe dovuta essere senza Goskino, censura e infiltrazioni del Partito Comunista: «Nessuno ha mai tagliato niente da Andrej Rublëv. Nessuno tranne me. Ho fatto dei tagli io stesso. Nel primo cut il film durava 3 ore e 20 minuti, nel secondo 3 ore 15 minuti. Ho ridotto la versione finale a 3 ore e 6 minuti. Sono convinto che l’ultima versione sia la migliore, quella di maggior successo. Ho tagliato solo alcune scene troppo lunghe».

Una scena tratta dal primo episodio di Andrej Rublëv. Il buffone, 1400
Una scena tratta dal primo episodio di Andrej Rublëv. Il buffone, 1400

Sempre secondo Tarkovskij: «Lo spettatore non si accorge nemmeno della loro assenza. I tagli non hanno in alcun modo cambiato il concept né ciò che per noi era importante in Andrej Rublëv. In altre parole, abbiamo rimosso scene troppo lunghe che non avevano alcun significato. Abbiamo accorciato alcune scene di brutalità per indurre uno shock psicologico negli spettatori, al contrario di una mera impressione spiacevole che avrebbe solo distrutto il nostro intento. Tutti i miei amici e colleghi che, durante lunghe discussioni, mi consigliavano di fare quei tagli alla fine si sono rivelati giusti. Mi ci è voluto del tempo per capirlo. All’inizio, ho avuto l’impressione che stessero tentando di fare pressione sulla mia individualità creativa. Più tardi ho capito che questo cut finale del film soddisfa più che le mie esigenze».

Nei cinema italiani Andrej Rublëv fu distribuito il 28 ottobre 1975
Nei cinema italiani Andrej Rublëv fu distribuito il 28 ottobre 1975

L’unica certezza, in ognuno di questi cut, è la presenza del prologo aereo in quella delicata e fluida soggettiva un po’ alla maniera della sequenza onirica dell’ di Federico Fellini. Un momento di Andrej Rublëv che simboleggia la posizione dell’uomo nel processo creativo: «L’uomo volante nel prologo è il simbolo dell’audacia, nel senso che la creazione richiede da parte dell’uomo l’offerta completa del suo essere. Sia che si desideri volare prima che sia diventato possibile, o lanciare una campana senza aver imparato a farlo, o dipingere un’icona. Tutti questi atti richiedono che, per il prezzo della sua creazione, l’uomo debba morire, dissolversi nel suo lavoro, donarsi interamente». Una lezione che quasi sessant’anni dopo appare sempre più limpida, vera, imprescindibile, o per dirla in una sola parola: necessaria.

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