MILANO – Prima della gloria e della rivoluzione messicana. Prima di Leonardo DiCaprio e Birdman. Molto, ma molto prima che Hollywood diventasse sua e che in patria diventasse «El aclamado ganador de cinco Oscares», Alejandro González Iñárritu se ne stava seduto in un angolo di set a Città del Messico ad osservare i movimenti circolari di Miguel Bosé. Siamo nel 1995, le riprese sono quelle di Detrás del dinero, pilot di una serie prodotta dalla casa di produzione del regista, la Z Films fondata qualche anno prima col socio Raul Olvera. Le speranze sono tante, i soldi pochi. E i risultati? Modesti, saranno modesti. Non ci uscirà quasi nulla. Eppure. Eppure proprio lì, su quella storia sbilenca che ruota attorno ad una banconota, viene seminato qualcosa destinato a fiorire. Non subito, non immediatamente, ma fiorirà. Non può saperlo nessuno, se non lui.
Esterno giorno, cinque anni dopo. Domenica 14 maggio 2000. Le strade polverose del Messico hanno lasciato il posto al marciapiede pulito che sta proprio davanti al Carlton di Cannes: Iñárritu, ilustre desconocido, si sistema nervosamente la giacca. Ha trentasei anni e si presenta alla Semaine de la Critique con un film di debutto che gli ha consumato tre anni di vita e che è la sua ultima chiamata. Dentro o fuori, da qui non si torna indietro. Fallimento o gloria. Le carte sono tutte sul tavolo, se la mano non sarà buona, il ritorno a casa sarà duro da affrontare. Il film si chiama Amores Perros, tre storie di vita, di amori, di cani. Un film bello, ma sporco e cattivo, zeppo di attori sconosciuti e portentosi (la faccia di Emilio Echevarría), un film che il regista ha scritto assieme ad un amico – che poi non lo sarà più, forse mai più – incontrato alla Universidad Iberoamericana: Guillermo Arriaga. «Porque también somos lo que hemos perdido…».
L’impatto di Amores Perros – che finirà poi addirittura nella cinquina degli Oscar come miglior film straniero (ma verrà sconfitto da La tigre e il dragone) – è da subito devastante, soprattutto sul cinema latinoamericano, tanto che critici e storici messicani poi non avranno dubbi: «Hay un antes y un después de Amores Perros». C’è un prima e un dopo. Sì, c’è anche nella vita di Iñárritu che, da quel preciso momento, diventa uno degli autori emergenti del nuovo millennio e comanda la conquista messicana di Hollywood. In nemmeno tre anni si troverà su un set a dirigere Sean Penn, Benicio Del Toro e Naomi Watts per 21 Grammi, ancora scritto con il socio – presto nemico – Arriaga. Il resto è storia, ma una cosa è evidente: la grande rivoluzione messicana che porterà poi ai vertici dell’Oscar anche i compari Cuarón e del Toro inizia qui. Da cani per strada e amori dilaniati per sempre. Da un film che non lascia scampo.
Tante storie dentro una storia, tante vite che si intrecciano e incrociano, mescolano passato e presente, pandemie e festival. Rodrigo Prieto – il direttore della fotografia di quel film – glielo avrebbe poi rubato Martin Scorsese – mentre José María Riba se lo sarebbe portato via in silenzio il COVID, quasi per caso, un pomeriggio troppo lungo. Chi era Riba? L’uomo che nel 2000 selezionò Amores Perros alla Semaine di Cannes, cambiando per sempre il corso della carriera di Iñárritu. Quello che è successo dopo si sa, tutto, dalla gloria agli Oscar, l’epica, Revenant, fino alle critiche feroci contro Bardo, la cronaca falsa di alcune verità, ma poco importa perché Amores Perros – che ora è anche in digitale, lo trovate su Prime Video, Rakuten e CHILI – è ancora lì, intero come quel giorno. Anzi con più significato addosso.
«A quei tempi credevo che ci fossero cose più importanti che stare con mia moglie e con mia figlia. Volevo creare un mondo senza ingiustizie per condividerlo con te. Non ci sono riuscito». Rivedere oggi El Chivo e Maru, ritrovare Gael García Bernal, il cane di Valeria, quel girotondo di storie feroci e mai arrese fa comprendere davvero la portata di quel cinema, mai conciliato e conciliante, anzi, disturbante, lontano anni luce dalle visioni sedate e placate dello streaming contemporaneo. Un film con i demoni dentro, buchi che non rassicurano, ma inquietano, come il charango di Gustavo Santaolalla, oggi finito su The Last Of Us. Altre strade. Altri orizzonti. E chissà se oggi Iñárritu – in qualche momento vuoto delle sue giornate – ricorda ancora quei pomeriggi trascorsi a metà anni Novanta ad osservare i movimenti circolari di Miguel Bosé.
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