ROMA – In un’America sull’orlo del collasso, attraverso terre desolate e città distrutte dall’esplosione di una guerra civile tra il governo autoritario e varie fazioni regionali, la leggendaria fotografa di guerra Lee Smith, il fidato collega Joel, il suo mentore, senior del The New York Times, Sammy, e la rookie Jessie Cullen, intraprendono un viaggio in condizioni estreme, mettendo a rischio le proprie vite per raccontare la verità. Con protagonisti Kirsten Dunst, Wagner Moura, Stephen McKinley Henderson, Cailee Spaeny, Nick Offerman e Jesse Plemons – e ora disponibile su Prime Video – oltre a essere, ad oggi, il progetto filmico più costoso della A24 con un budget di 50 milioni di dollari (prima di lui solo Beau ha paura, con 35), Civil War, il nuovo film di Alex Garland, è approdato nelle sale statunitensi lo scorso 12 aprile, ovvero a 163 anni esatti dall’inizio della Guerra Civile Americana.
Laddove però, nella realtà storica del 1861, negli Stati Uniti d’America si combatteva tra Unionisti e Confederati per la schiavitù e tutto ciò che essa comportava in termini socio-economici, culturali e liberali, in quella filmica dell’America di Garland regna semplicemente il caos convulso. Un Presidente al terzo mandato (un inedito Nick Offerman) parla dell’esito del conflitto come de «La più grande vittoria della storia dell’America», e l’intera nazione è divisa in quattro differenti fazioni: Loyalist States, Florida Alliance, New People’s Army, ma soprattutto Western Forces comprendente lo Stato del Texas e quello della California. Una scelta niente affatto casuale per Garland. L’obiettivo era quello di offuscare le differenti visioni politiche sottolineando come, pur di andare contro un Presidente incostituzionale, corrotto e fascista che non si pone alcun problema a sganciare bombe sui propri civili, due Stati notoriamente agli antipodi avessero scelto di allearsi.
E se è vero che, su ammissione dello stesso Garland, Civil War è parte dell’universo narrativo di Men: «Ambientato in un punto indeterminato del futuro, appena abbastanza lontano da permettermi di aggiungere una presunzione che funge da allegoria fantascientifica alla nostra situazione attualmente polarizzata», la storia recente americana ci permette, dunque, di vedere dietro il velo testuale dell’isolato e lontano futuro allegorico, per rivelare la forza di una narrazione ispirata – per non dire fortemente radicata – all’attualità del presente-passato del 2021 post-pandemico di Capitol Hill e dell’America trumpiana. Da qui l’intuizione di Garland del near-future distopico di Civil War come lettura esasperata del nostro tempo raccontata nelle forme di un road movie classicissimo che unisce all’esplicitazione degli archi di trasformazione dei suoi agenti scenici, iconografie di un mondo alla deriva. Paesaggi apocalittici restituitici da Garland in soluzioni d’immagine ricercate e colorate, variopinte, ricche di contrasti semantici.
Orrori scenici di sparatorie e disordini fratricidi smorzati, se non perfino diluiti, da scelte musicali in controtendenza (Lovefingers dei Silver Apples, Say No Go dei De La Soul, Sweet Little Sister dei Skid Row su tutte) che arricchiscono di carisma, stile e originalità un Civil War opera straordinaria e potentissima di cinismo e sogni infranti (il momento che precede il finale nello Studio Ovale è di una drammaticità e cupezza difficilmente eguagliabile), arrivismo e populismo, xenofobia, razzismo e discriminazione, ma soprattutto di giornalismo e comprensione dei fatti: ragionato e d’assalto, di parte e non schierato. Le tre generazioni di reporter scenici permettono a Garland di raccontare, si, della vita nelle sue tre fasi (gioventù, maturità, tramonto), ma più pragmaticamente, dell’essere approfonditi e indagatori (Sammy) o tempestivi, istintivi e in tendenza (Jessie). Nel mezzo ci sono Lee e Joel, nati nel passato ma adattati al presente per necessità.
Ad esso, Garland lega a doppio filo la tipicità caratteriale dell’essere fotoreporter, e più specificamente con l’esserlo in tempo di guerra. Una componente che in Civil War diventa narrazione nel rapporto con l’immagine, ora nell’assimilazione dell’occhio registico con quello dello spettatore, ora nell’interpretazione della realtà non in presa diretta, ma mediata dalla fotocamera. Con loro, una Dunst densa, tenace, fragile e consumata, tanto veterana quanto priva di difese, bloccata in un loop esistenziale di incertezza e guerra (interiore ed esteriore), un Moura inedito, eccezionale in alleggerimento, esplosivo nel drammatico, e una Spaeny sempre più certezza, a cui Garland regala, forse, lo sviluppo più doloroso. Sullo sfondo la guerra come agente di caos disgregante. Il grande livellatore universale che ribalta la percezione dell’uomo ricordandoci della differenza tra bene e male. Civil War, un grande film nato dalla storia e destinato a fare la storia.
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