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Da Taxi Driver a Il Maestro Giardiniere | L’uomo solitario secondo Paul Schrader

Autobiografismo, redenzione e violenza è il filo conduttore di un viaggio filmico da rivalutare

Da Taxi Driver a Il Maestro Giardiniere: viaggio nel cinema di Paul Schrader
Da Taxi Driver a Il Maestro Giardiniere: viaggio nel cinema di Paul Schrader

ROMA – Oscurità e fulgore. I due principi fondamentali che un po’ cinicamente e un po’ dolentemente, regolano e avvolgono i destini degli uomini solitari del cinema di Paul Schrader. Catapultati nel caos sregolato e violento della metropoli americana e ancora nel silenzio profondamente desolante e illusoriamente salvifico della provincia, la cui colpa è quella di celare sottilmente e mai definitivamente quel rimosso traumatico e lacerante che gli stessi vorrebbero invece destinare all’oblio, non possono far altro che perdersi, oppure ritrovarsi, tra l’accettazione di un trauma irrisolto e la consapevolezza del perdono. Alcuni di loro sono uomini al volante, che osservando la notte, perciò la strada, si immergono a fondo nella disperazione e degradazione sociale apparentemente senza fine e morale, tanto di una New York paranoica e allucinata, quanto di una Los Angeles orrendamente perversa e in preda a furiose tratte di corpi e di vite dal prezzo pur sempre trattabile, se non addirittura sacrificabile.

Taxi Driver, un film di Martin Scorsese sceneggiato da Paul Schrader, del 1976
Taxi Driver, un film di Martin Scorsese sceneggiato da Paul Schrader, del 1976

Altri invece sono uomini che raccontano, o meglio, che si raccontano, seduti a capo chino su scrivanie flebilmente illuminate, nell’angolo oppure al centro di una camera di Motel impersonale e snaturata, o ancora di una Canonica asettica e già di per sé simbolo di una solitudine profonda a tal punto da apparire esiliante, oppure di un giardino floreale, curatissimo e nascondiglio del male. Più destini, più solitudini. Un grande equivoco vuole però che Paul Schrader, il controverso autore del copione di Taxi Driver, divenuto nelle mani del genio di Martin Scorsese, un vero e proprio capolavoro cinematografico, abbia scritto e diretto nel corso della sua ricca e variegata filmografia, un’unica trilogia centrata nella sua totalità sulla figura dell’uomo solitario qui presa in esame. Quest’ultima coinciderebbe infatti con il trittico formato da First Reformed – La creazione a rischio, Il collezionista di carte e Il Maestro Giardiniere, escludendo, un po’ ingenuamente e un po’ colpevolmente le evidentissime origini di tale ricerca e figura, quella appunto dell’uomo solitario.

Robert De Niro in un momento del film
Robert De Niro in un momento del film

Dunque come detto, nientemeno che un grande equivoco poiché non soltanto vi è una trilogia, ma anche una vera e propria saga, cominciata nell’ormai lontano 1976 con Taxi Driver, indimenticabile cult scritto (ma non diretto) da Paul Schrader e proseguita poi nel 1980, 1992 e 2007 con American Gigolò, Lo spacciatore e The Walker. Quattro film direttamente dialoganti non soltanto tra loro, ma anche e soprattutto con il trittico precedentemente citato e apparentemente giunto a conclusione con Il Maestro Giardiniere che, meglio e più di ogni altro titolo, svela – e rivela – l’anima Calvinista, armoniosa e dolce, prima dell’autore e poi dell’uomo, Paul Schrader, per come oggi ci appare.

Cybill Shepherd in una scena di Taxi Driver
Cybill Shepherd in una scena di Taxi Driver

Se infatti Narvel Roth, il manicale giardiniere dall’oscuro passato, interpretato da Joel Edgerton in Il Maestro Giardiniere, rappresenta la conclusione del pensiero di Schrader, non può che spettare a Travis Bickle, l’allucinato e tormentato taxista newyorkese cui ha dato magistralmente volto e corpo Robert De Niro in Taxi Driver, il ruolo di mostrare luci e ombre del periodo iniziale, dunque degli esordi del suo autore, all’epoca profondamente in conflitto tra gli ideali ecclesiastici, scaturiti dalla rigida educazione Calvinista appresa a Gran Rapids nel Michigan e lo shock culturale inaspettatamente in atto e curiosamente osservato dallo stesso Schrader durante i suoi studi all’UCLA di Los Angeles, che non soltanto lo stravolgono, ma ne sradicano anche e piuttosto tragicamente, numerose certezze e ideologie.

Una scena di Taxi Driver
Una scena di Taxi Driver

Come più volte raccontato dallo stesso Schrader infatti, non gli è permesso vivere alcunché nel periodo della controcultura in atto nella California della sua giovinezza. Ciò che però gli è concesso fare, è osservare attraverso un parabrezza, una finestra e uno sguardo, vite e movimenti altrui. Qui nasce l’autore Schrader, favorito da uno spostamento culturale necessario e decisivo che muta profondamente quella sensibilità sociale e politica destinata a consegnare, nel 1976, al pubblico internazionale e alla storia del cinema, Taxi Driver, capolavoro di cinismo, lucidità, follia e violenza: «Vengono fuori gli animali più strani la notte. Put*ane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre» recita una linea dialogica).

Jodie Foster in una scena di Taxi Driver
Jodie Foster in una scena di Taxi Driver

In Taxi Driver, quinto lungometraggio da regista di Martin Scorsese, due sono le sequenze che più inquietano e allarmano lo spettatore, ancora impreparato e indeciso rispetto agli ideali, agli istinti e alla natura del taxista solitario e morbosamente innamorato, o per meglio dire, ossessionato, Travis. Una è quella d’apertura: un’auto arranca nella notte solitaria di New York, tra lo smog e le luci al neon gustosamente vintage della città. È un taxi come tanti, ma del suo autista non si può affatto dire lo stesso. Ne osserviamo lo sguardo allucinato e apparentemente spaventato, in un primissimo piano duraturo e perfettamente in linea con la fantasmagoria orrorifica suscitata dalla colonna sonora di Bernard Hermann. Travis guidando, non può far altro che osservare, e mai vivere la vita di New York. Un po’ come un fantasma, un uomo che non c’è, un solitario, il primo di essi.

Una scena del film
Una scena del film

Ecco perché la paura e il distacco, che Scorsese filtra attraverso gradazioni alternate di toni rossi e blu fortemente psichedelici che destabilizzano lo spettatore, qui sì impreparato rispetto a ciò sta per accadere. È proprio nel corso di questa prima sequenza che timidamente eppure concretamente la violenza fa irruzione, anticipando in qualche modo – e di molto – quei mutamenti profondi destinati a sconvolgere ciascuno spettatore, incredibilmente sorpreso dal passaggio di Travis da uomo solitario e tranquillo a servizio della società, a presunto vendicatore e folle paladino, desideroso in realtà di scontrarsi con essa. La seconda sequenza fa invece riferimento alla spaventosa esplosione d’euforia di Travis, appena dopo la “prova d’attentato” ai danni del Senatore Charles Palantine (Leonard Harris).

Un momento di Taxi Driver
Un momento di Taxi Driver

Scuotendosi nervosamente per poi gridare euforico, Travis trae godimento dall’aver tentato di uccidere un uomo del potere, riuscendo a fuggire, tornando nella sua tana colma di sporcizia, fiori marciti e ormai diretta metafora della degenerazione psicologica del personaggio. Non sono affatto casuali le ombre di Travis proiettate sul muro, armate e perfettamente in linea con quella riflessione costante sul tema del doppio, rintracciabile nell’intero percorso dell’uomo solitario di Paul Schrader. Tornando a Travis, la sua è una follia lucida e allo stesso tempo paranoide – nonostante quell’istinto appartenga in tutto e per tutto all’uomo misterioso interpretato nel film dallo stesso Martin Scorsese, che incurante della propria apparenza, riflette su femminicidi, voyeurismo e violenza – che De Niro veicola attraverso un lavoro magistrale di fisicità ed espressività tormentata, sopra le righe e in stato di perdurante tensione e instabilità.

Robert De Niro in una scena di Taxi Driver
Robert De Niro in una scena di Taxi Driver

Il primo uomo solitario della saga di Paul Schrader risponde dunque ad una fase di crisi profondissima, vissuta ed elaborata da un individuo che non soltanto vive sé stesso come perseguitato, ma anche come colui che è capace di perseguitare e infine uccidere, in nome di un cammino di redenzione che passando per l’ideale salvataggio di una giovinezza ancora illusoriamente innocente, quella di Iris (Jodie Foster), sfocia nella violenza più esagerata e catartica, che segna una volta per tutte la natura di Travis, come quella di un uomo irrimediabilmente segnato da un trauma irrisolto e certamente insuperabile, capace di trarre godimento esclusivamente dalla morte e dal racconto della stessa. Non è casuale la panoramica che Scorsese compie tra le pareti dell’appartamento di Travis, nel corso della sequenza finale, tra articoli di giornale appesi e lettere di congratulazioni.

American Gigolò, un film di Paul Schrader del 1980
American Gigolò, un film di Paul Schrader del 1980

Un uomo solitario qui fanatico, folle e spaventoso che si racconta, scrivendo a sé stesso (e di sé stesso) tra le pagine di un diario destinato a tornare, tanto ne Lo spacciatore quanto in Il Maestro Giardiniere. Così come il taglio di capelli in continua evoluzione di Travis muta nel corso di Taxi Driver, evidenziando fin da subito gli stravolgimenti narrativi in atto, a partire da quel dettaglio inevitabilmente dialogante e feroce e pur sempre a favor di camera e di sguardo, mutano anche look e coolness di Richard Gere nel corso degli eventi di American Gigolò, il secondo capitolo della saga dell’uomo solitario di Paul Schrader, che qui comincia a sbizzarrirsi in quanto autore a 360° gradi. Ancora una volta un uomo solo al volante di un’auto nella sequenza d’apertura. Non è più notte però e destabilizza il fulgore rampante e irrequieto, ulteriormente sottolineato dall’armoniosa Call Me dei Blondie, in seguito reiterata fino all’ossessione orrorifica, di questo secondo tassello narrativo, che sappiamo bene essere la prosecuzione ideale – o diretta – di Taxi Driver.

Richard Gere in una scena del film di Schrader
Richard Gere in una scena del film

Molto presto infatti, gli iniziali estetismi clamorosamente (omo)erotici ed evidentemente destinati ad una involuzione e discesa agli inferi sempre più disperata, da parte del bello ma nient’affatto scaltro Julian, svaniscono e prende piede la corruzione morale e qui sì, priva di alcun percorso di redenzione che conduce American Gigolò ad un racconto lucido e spietato sulla figura di un solitario, che alla stregua del taxista Travis, vive una vita ai margini della società, desideroso, seppur soccombente, di confondersi in essa. Interpretando un vero e proprio ruolo, perciò camuffandosi e imbellettandosi come qualcosa o qualcuno che di fatto non è, che definitivamente Schrader mostra nel corso dell’ingresso di Julian – nella conclusione del film -, all’interno del ristorante d’élite, non soltanto privo di smoking, ma perfino sporco sul volto e consapevole di un’espressività del viso, fissa, folle e paranoica frutto degli eventi, della caduta e della morte precedentemente osservati.

Una scena di American Gigolò
Una scena di American Gigolò

Ecco dunque lo sguardo sulla violenza, privo di alcun giudizio da parte dello stesso Schrader e di Julian – violenza pur sempre relegata al fuori campo – che costretto a vendere sé stesso per sopravvivere alle leggi sacrificali e fieramente fisiche e di sfruttamento della propria immagine e identità – ricordiamo che l’uomo solitario è ancora una volta un uomo che non è, o ancora, un fantasma – sceglie di non arrestare la sua richiesta di pietà, sprofondando metaforicamente nel vuoto in compagnia del pappa Leon (Bill Duke), nonostante il prevedibile salvataggio conclusivo da parte della follemente innamorata Michelle Stratton (Lauren Hutton). Salvataggio che allontana Julian dal carcere, ma non dalla perdizione. Tornano le ombre del protagonista proiettate sul muro, dunque la riflessione sul doppio e con essa una sequenza urbana notturna e cupissima durante la quale American Gigolò e Taxi Driver si fondono e confondono producendo un ibrido di interessante e inevitabile discussione critica che passa per gay bar, erotismo e involuzione violenta.

Richard Gere in un momento del film di Schrader
Richard Gere in un momento del film

American Gigolò rientra dunque, all’interno della saga dell’uomo solitario di Paul Schrader, nel racconto a tre voci – o titoli – idealmente definibile come: L’uomo solitario e il trauma irrisolto, del quale fanno parte anche Taxi Driver e quarantacinque anni dopo, Il collezionista di carte. Tutto o quasi nel percorso d’evoluzione dell’uomo solitario, all’interno della saga di Paul Schrader, comincia a cambiare, al momento dell’uscita nelle sale cinematografiche globali de Lo spacciatore, un racconto questa volta non più centrato sulla definitiva distruzione morale di quel solito individuo solo, la cui vita tenta ancora una volta di confondersi innocentemente – e non – nel caos metropolitano della città, tra voyeurismo esasperato e rincorsa paranoica e allucinata di un qualsiasi status all’interno d’essa.

Richard Gere in una scena del film
Richard Gere in una scena del film

Quello stesso status e ruolo, tanto agognato, seppur mai raggiunto, sia dal folle taxista Travis, che dall’ambiguo gigolò Julian, entrambi lavoratori della notte e creatori di un’offerta della quale, quella stessa società gode e scarta, desiderandola e al tempo stesso disprezzandola, poiché Travis e Julian, come già detto, sono essenzialmente fantasmi, identità camuffate, anonime e snaturate rispetto ai loro reali, quelli più crudi e perversi. Tutto cambia, eccetto la sequenza d’apertura, ormai è chiaro, vero e proprio marchio di fabbrica del primissimo Schrader. Ancora una volta un’auto arranca lungo le strade della notte metropolitana, qui solitaria e silenziosa, a differenza della New York caotica, psichedelica e fin da subito violenta di Taxi Driver. Tutto è più misurato nella presentazione del solito, eppure nuovo uomo solo di Lo spacciatore, John Le Tour, che adagiato sui sedili posteriori di un’auto di lusso e non al volante della stessa (dunque non più conduttore del destino riservatogli da Schrader, come accaduto invece agli uomini solitari dei precedenti film) osserva passivamente l’umanità perseguitata dai vizi e dalla violenza oltre il finestrino.

Lo spacciatore fu presentato al Sundance Film Festival il 24 gennaio 1992
Lo spacciatore, di Paul Schrader, fu presentato al Sundance Film Festival il 24 gennaio 1992

Rivedendosi – e rivivendosi – in essa, senza perciò giudicarla, rivolgendole piuttosto uno sguardo nostalgico, trattandosi di un passato certamente traumatico e tragico coraggiosamente lasciato alle spalle e ormai elaborato. Uno sguardo che viene impresso anche su carta e attraverso le parole che John dedica ad un diario notturno, fatto di confessioni, dubbi e riflessioni morali, destinate ad un’autoterapia sorprendente salvifica e di redenzione. Le Tour è interpretato da un Willem Dafoe incredibilmente remissivo che pur conducendo una professione criminale, come quella dello spacciatore, portata avanti dai più tra soprusi, sangue e violenze, viene riletta dal suo John, in chiave profondamente filosofica e spirituale, perciò capace di negare immediatamente l’esistenza di tali condotte, osservandole con sdegno, e considerandole estremamente distanti da quella professione che da anni lo vede battere i marciapiedi e le strade di una New York tendente al blu, sonnolenta ed onirica che torna, almeno apparentemente alla Philadelphia dell’omonimo film di Jonathan Demme, e che mai realmente si sofferma sul male certamente presente in essa.

Nei cinema italiani Lo spacciatore fu distribuito da Penta Film il 2 luglio 1993
Willem Dafoe in una scena de Lo Spacciatore

Mettendo da parte la precedente riflessione sulla degenerazione fisica e psichica dell’uomo solitario, qui Schrader le preferisce il racconto sul riscatto morale, che passa inevitabilmente per la violenza – limitata alla singola sequenza conclusiva – e l’amore, in un finale che torna dalle parti di American Gigolò e che ragiona sulla bellezza del sentimento, se condiviso e rispettato da entrambe le parti, e non da una soltanto. Ecco perché, Lo spacciatore rappresenta la prima voce, del secondo racconto a quattro titoli, pur sempre interno alla saga di Paul Schrader, definibile come: L’uomo solitario e la consapevolezza del perdono. È curioso che dall’uscita de Lo spacciatore in avanti, Schrader abbia cominciato a comunicare il grande cambiamento del proprio cinema, proponendo modelli di uomini solitari nient’affatto violenti, seppur circondati da una società inevitabilmente corrotta e mortifera, ma non abbastanza da stravolgere etica e morale degli stessi.

«Parte di ciò che ho cercato di fare con John LeTour è stato mescolare un’evoluzione personale con una sociale. A vent’anni era arrabbiato, a trenta narcisista, a quaranta è ansioso, un po’ come me» (P. Schrader)

Prima rispetto a John Le Tour e poi a Carter Page III (Woody Harrelson), un agente immobiliare di fama, nonché accompagnatore delle personalità femminili più influenti dello scenario politico americano, destinate a divenire presto, pedine e vittime di un complesso gioco politico tra scandali sessuali e inspiegabili omicidi. Poco importa se l’ironia gigioneggiante di Paul Schrader/Woody Harrelson sulla costruzione di Carter Page III, si soffermi spesso e volentieri su una omosessualità estremizzata e buffa ai limiti della farsa e dei linguaggi del cinema demenziale, poiché a farvi da contorno vi è una riflessione piuttosto bizzarra e certamente anomala, considerato il percorso compiuto da Schrader fino a qui, attorno al significato profondo della propria identità, non tanto come ruolo e status, piuttosto come macchia.

The Walker, un film di Paul Schrader del 2007
The Walker, un film di Paul Schrader del 2007

A rendere solitario Carter Page III perciò non è, come d’attese, rispetto ai precedenti capitoli della saga, un modo d’osservare la vita disinteressato e malinconico, o al contrario, ossessivamente voyeuristico da parte di un individuo solo e fiero d’essere tale, piuttosto un’identità ben precisa che corrisponde qui ad una omosessualità spiccata, coraggiosa e provocatoria, tanto da divenire una vera e propria trappola, capace di screditare una volta per tutte la moralità ferrea di Page, o al contrario, salvarla. Comunque lo si guardi, The Walker rappresenta nella saga dell’uomo solitario di Paul Schrader un tassello complesso da inserire all’interno del sempre più ampio puzzle composto dai due cicli a tre e quattro voci.

Kristin Scott Thomas e Woody Harrelson in una scena di The Walker di Paul Schrader
Kristin Scott Thomas e Woody Harrelson in una scena di The Walker

Seppur moltissimi elementi dei film precedenti siamo rimasti inalterati, l’auto, la violenza, l’inevitabile solitudine causata dal discredito morale e così via, cupezza e riflessione urbana, ossia i due elementi pressoché centrali dei tre titoli più rappresentativi della saga, qui svaniscono, lasciando spazio ad un’inattesa armonia leggera, fin quasi da commedia agrodolce a tinte drammatiche e solo in qualche rarissimo momento, sottilmente tensiva in salsa thriller. Insomma, Schrader apparentemente cambia passo, eppure le origini come sempre, sono destinate a tornare. Per questo però dovranno trascorrere altri dieci anni, con l’uscita nelle sale del film probabilmente più personale, esistenzialista e solitario di Schrader: First Reformed. Un Reverendo abbandona la sua auto ai margini di un bosco innevato e cominciando a camminare, non smette di rivolgere lo sguardo al display del telefono cellulare, che però non sembra restituirgli alcuna linea di rete.

Una scena di First Reformed, un film di Paul Schrader

Man mano che cammina il silenzio si fa sempre più tetro e Schrader lavora di sottrazione e minimalismo sintattico, negando alla sequenza la presenza di un qualsivoglia commento musicale, soffermandosi unicamente sul volto del suo interprete, Ethan Hawke, mai così in parte, mai così introspettivo. Non passa poi molto, prima che il Reverendo si imbatta nel corpo di un suicida, il cui cranio è esploso in mille pezzi e sparpagliato qua e là tra neve, legnetti ed il fucile da caccia che lo ha reso tale. Ancora silenzio, ancora sorpresa, ancora sangue. Eppure la morte non è mai stata così intima e ideologicamente poetica. Dimostrando di aver appreso la lezione Hitchcockiana di Psyco, relativa all’omicidio della protagonista Marion Crane, appena dopo i primi trenta minuti di film nella clamorosa sequenza della doccia che tutti noi conosciamo, divenuta già di suo (al di là del film nella sua interezza) storia del cinema.

First Reformed
Ethan Hawke e Amanda Seyfried in una scena di First Reformed

Paul Schrader, un po’ consapevolmente e un po’ no, si muove nella medesima direzione, presentando il momento probabilmente più violento – almeno, sul piano visivo – dell’intero film, nei primi trenta o quaranta minuti del suo lungometraggio meno convenzionale e più personale di sempre, ossia First Reformed. La sequenza è indubbiamente sorprendente e d’impatto e la macchina da presa di Schrader ne è immediatamente consapevole. Ecco il perché del suo indugiare curioso e ancora una volta morbosamente voyeuristico. Eppure a partire dalle primissime inquadrature che la formano, dunque dal suggerimento rispetto alla presenza concreta della morte, lì a terra nel bosco, anche lo spettatore meno attento non può far altro che percepire un sentimento pacificatorio e di unione armoniosa tra uomo/corpo e natura che se inizialmente destabilizza, poco dopo chiarifica l’urgenza narrativa di First Reformed.

Un’immagine di First Reformed

Quella di indagare nuovamente l’uomo solitario, anche se questa volta considerato d’interesse, proprio perché estremamente materico e non più evanescente e fantasmatico, come accaduto nei film precedentemente analizzati. Laddove resta inalterata la questione della solitudine come scelta d’esistenza, qui generata da un passato nient’affatto conciliatorio e armonioso, piuttosto tragico e quotidiano nel suo realismo crudo e banalmente irrevocabile, muta invece (e nuovamente) il processo di redenzione cui non può che prendere parte l’uomo solitario interpretato da Ethan Hawke, che dopo aver messo in discussione sé stesso, permettendo il crollo di ferree convinzioni e certezze, fino a quel momento rigorosissime e appunto incrollabili, legate al ruolo del suo ambiente clericale, illusoriamente idilliaco e di fatto complice di veri e propri atti criminali, reinventa il proprio essere e volere, immaginandosi per una volta soltanto, nonché l’ultima della sua esistenza, nei panni insanguinati e dolorosissimi di un martire.

Un estratto della locandina di First Reformed di Paul Schrader
Un estratto della locandina di First Reformed

First Reformed scandagliando un pensiero Calvinista, un tempo estremamente convinto e ormai sempre più messo in discussione dai dubbi e dalle false certezze, come quello dello stesso Paul Schrader, ha indubbiamente un grande merito, che mai prima di questo film ci era stato permesso di riconoscere, tanto all’interno della filmografia di Schrader, quanto nel cinema internazionale degli ultimi anni, ossia la capacità di rendere il dolore, nient’altro che poesia e così la violenza, che in modo differente e al tempo stesso univoco, riflette in sé il significato e peso del perdono, espresso ulteriormente nel diario notturno tenuto dal Reverendo. Un significato che è indubbiamente politico e infine magico. Ecco spiegata la presenza dell’onirismo, espressa nella sequenza più singolare e anomala del film, quella cioè della lievitazione. Come potrebbe dunque First Reformed, non far parte del secondo racconto a quattro voci sull’uomo solitario e la consapevolezza del perdono?

Un momento del film
Un momento del film

A confondere le carte e sviare il pubblico, dal cambiamento ormai considerato rigoroso e ferreo del cinema di Paul Schrader, focalizzato sulla questione del perdono e della redenzione, giunge ben presto il film che torna con fare minimalista e sadismo suggerito, alle origini del cinema di Schrader, quelle cioè dell’uomo solitario alle prese con il trauma irrisolto, perciò insuperato e insuperabile, del quale non si può che restare vittime, divenendo per volere del destino, perfino dei carnefici. Ecco perché, William Tell (Oscar Isaac), il protagonista di Il collezionista di carte, che già a partire dal nome indirizza il pubblico verso una teatralità sotterranea, eppure evidentissima, non permette a nessuno di conoscere la sua reale identità.

Oscar Isaac in una scena di Il Collezionista di Carte, un film di Paul Schrader del 2021
Oscar Isaac in una scena di Il Collezionista di Carte, un film di Paul Schrader del 2021

Nemmeno al giovane Cirk (Tye Sheridan), che restando agli stilemi della saga dell’uomo solitario di Schrader, dovrebbe rappresentare il punto di partenza del cammino di redenzione di questo nuovo protagonista. Qualcosa è accaduto nel passato di William, il cui nome inevitabilmente non è William. Qualcosa che non è risolto, poiché non è stato subito, piuttosto perpetrato. Dunque, a differenza del reverendo di First Reformed, il giocatore di poker di Il collezionista di carte, si muove sul tavolo da gioco e così nella vita, seguendo la medesima anonimia, professionalità, e ambiguità, restando oscuro, fantasmatico e inesistente. Un uomo che non soltanto è frutto dei propri traumi, ma che ha tentato per tutta la vita di celarli tra silenzi e negazione del sé, muovendosi senza sosta lungo le strade della provincia americana più desolata e disinteressata, così da non guardare più in faccia quel passato di violenza e orrore, destinato però a tornare, nei panni logori e bizzarri, del Maggiore John Gordo (Willem Dafoe).

Oscar Isaac in un momento del film
Oscar Isaac in un momento del film

Colui che ha reso William Tell ciò che è: un fantasma, vittima dei propri rimorsi e del male che ha dovuto – e voluto – provocare, in una realtà che Schrader filma e fotografa come fosse nientemeno che un girone infernale, allucinato, sanguinoso, traumatico e psichedelico, messo in seguito a confronto con l’impersonale e anomala mania di William Tell di vivere gli spazi quotidiani, fasciati maniacalmente da teli bianchi, così da rendere ogni luogo, un carcere, tanto fisico, quanto psicologico. Il collezionista di carte dunque, non nasconde in alcun modo la sua volontà così forte e concreta di farsi ancora una volta cinema sulla gabbia che ciascuno di noi può scegliere di costruirsi attorno a sé, pur di non superare un male che si è subito, oppure che si è perpetrato, evitando perciò di illudersi rispetto alla propria natura, mantenendosi integri, seppur logorati.

Tiffany Haddish e Oscar Isacc in un momento di Il Collezionista di Carte di Paul Schrader
Tiffany Haddish e Oscar Isacc in un momento di Il Collezionista di Carte

Questa almeno è la scelta di William, che vittima dell’uomo che è stato, ne mantiene nel profondo, rigidità, cattiveria e sadismo, tentando di tanto in tanto, di confondersi – e confondere – tra le carte e l’umanità che incontra lungo le strade, i motel e i casinò che frequenta per sopravvivere, conducendo un’esistenza solitaria che improvvisamente spezzano, tanto il giovane Cirk, quanto la recruiter La Linda (Tiffany Haddish), mettendo in discussione un equilibrio e delle logiche, fino a quel momento rigidissime e forse, se messe in discussione, ponendo le giuste domande e se osservate nel modo più diretto e intimo, perfino riscrivibili, come l’attitudine alla bontà e la scelta dell’amore. Osservando il William Tell di Oscar Isaac, qui in una prova minimalista e in sottrazione, che vive unicamente di sguardi e silenzi, rivediamo il tormento paranoico e i fantasmi della mente del Travis Bickle di Taxi Driver, che pur inseguendo l’amore, o almeno, tentando di farlo, ne diviene vittima e appena dopo carnefice, mutando da giovane innamorato, a vero e proprio stalker e individuo pericoloso.

Il momento finale di Il Collezionista di Carte di Schrader
Il momento finale di Il Collezionista di Carte di Schrader

William, in conflitto con sé stesso, sa che non può evitare il male, così come scrive nel suo diario di confessioni e riflessioni, alla stregua di Travis Bickle e John Le Tour. Ecco perché non ha più voluto guardarlo in faccia, ecco perché perfino gli specchi delle camere dei motel che frequenta vengono immediatamente coperti con i teli bianchi, e così i letti, le poltrone e i tavoli. Perché lui stesso è il male, o almeno, lo è stato. Schrader, non ancora pronto e interessato ad una conclusione dolce e serena del proprio percorso, tanto cinematografico, quanto esistenziale, non può che condurre ancora una volta il suo protagonista solitario verso la violenza, consegnando William Tell ad una dimensione della stessa, sorprendentemente spaventosa e sadica, seppur relegata al solo fuoricampo, che nemmeno l’amore, suggerito dall’incontro conclusivo in carcere (il luogo dal quale William di fatto non è mai fuggito), tra William e La Linda, è capace di oscurare e alleggerire.

Una scena del film di Schrader
Una scena del film

La redenzione perciò non coincide in alcun modo con il perdono e Il collezionista di carte, torna, così come Taxi Driver e American Gigolò, ad inserirsi nel racconto a tre voci sull’uomo solitario e il trauma irrisolto. Nell’idillio floreale e sospeso dei giardini Gracewood, un non luogo che sembra rimandare ad una piantagione del 1800, fuori dal tempo e dallo spazio contemporaneo nel quale il film di fatto è ambientato, collocandosi ai giorni nostri, facendo però di tutto pur di astrarsi da tale realtà, vive e lavora Narvel Roth (Joel Edgerton) l’orticoltore silenzioso e osservatore protagonista di Il Maestro Giardiniere. Narvel non parla molto con gli uomini, perlopiù con le piante, tornando alla riflessione generata da First Reformed, sul legame indissolubile ed eterno tra uomo e natura.

Sigourney Weaver e Joel Edgerton in una scena de Il Maestro Giardiniere
Sigourney Weaver e Joel Edgerton in una scena de Il Maestro Giardiniere

Laddove c’era la morte, qui c’è la vita, ancora una volta sospesa, introspettiva, isolata e solitaria, affidata alle pagine di quel diario che ben prima di Narvel, tanto Travis, quanto John Le Tour, il Reverendo Toller e William Tell, riempiendolo di riflessioni, dubbi, paure e ossessioni, hanno ricercato un possibile cammino di redenzione e perdono, oppure al contrario di perdizione e follia. Il Maestro Giardiniere, restando saldamente ancorato agli stilemi della saga dell’uomo solitario di Paul Schrader, ne ripercorre inevitabilmente ogni traccia narrativa, per poi tradire quanto fatto in precedenza, preferendo alla dimensione maligna e disperata della violenza, quella dell’amore, della bontà d’animo e della possibilità del cambiamento, che spetta ad ogni uomo ed ogni donna e che riflette una volta per tutte la convinzione profondamente Calvinista di Schrader, non più messa in discussione, piuttosto celebrata.

Nel cast del film anche Quintessa Swindell
Quintessa Swindell in una scena de Il Maestro Giardiniere

Riflessione qui giunta, dopo l’amara e cupissima parentesi de Il collezionista di carte, ad una pacificazione dolce e rasserenata che si muove tra i linguaggi del dramma, del thriller e del western, raccontando l’uomo solitario così come lo faceva George Stevens nel 1953 con Il cavaliere della valle solitaria. Schrader però, a differenza di Stevens, permette al suo protagonista, Narvel, di scordare le colpe e abbracciare un nuovo destino, lontano dal male e dai demoni del passato, profondamente radicati nell’anima e come se non bastasse, perfino esposti sulla sua pelle tatuata (esattamente come il William Tell de Il collezionista di carte) così da impedirgli di dimenticare.

Il Maestro Giardiniere, un film di Paul Schrader, al cinema dal 14 dicembre per Movies Inspired
Il Maestro Giardiniere, un film di Paul Schrader

Permettendogli, però, di raggiungere quel miglioramento a lungo ricercato e forse una volta per tutte concessogli dai frutti, non soltanto dell’amore provato per la giovane Maya (Quintessa Swindell) ma anche di quei giardini così maniacalmente ed abilmente curati che rappresentano per Narvel la possibilità di redenzione e miglioramento, più di ogni altra cosa. Il Maestro Giardiniere, conclude ad oggi, con inaspettato romanticismo e dolcezza, la saga dell’uomo solitario, e così anche il racconto a tre voci, pur sempre interno ad essa, sull’uomo solitario e la consapevolezza del perdono, aspettando Oh Canada! da Cannes 77 naturalmente…

Qui sotto potete vedere una featurette a tema Paul Schrader: 

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