MILANO – La vita sentimentale di Ingmar Bergman fu caotica, ricca, e variopinta, esattamente al pari della sua intensa produzione filmica. Si sposò cinque volte ed ebbe nove figli. Condivise inoltre la vita con alcune delle sue muse artistiche/attrici feticcio: Harriet Andersson (Monica e il desiderio), Bibi Andersson (Persona), Ingrid Thulin (Il posto delle fragole), ma soprattutto Liv Ullmann. Dalla loro unione nacque nel 1966 la figlia Linn (che di cognome fa Ullmann e non Bergman ndr), spingendo l’autore a lasciare la quarta moglie – la pianista Käbi Laretei – per poi chiederle il divorzio tre anni più tardi. Ecco, per certi aspetti, Scene da un matrimonio rappresenta un viaggio nel Bergman privato, nonché la sublimazione del potere taumaturgico dell’arte al servizio di un racconto biografico. Scritta la sceneggiatura in soli tre mesi, Bergman attinse infatti alle sue esperienze personali. Ai matrimoni infelici di cui fu marito, traditore, e amante – al punto che la stessa Ullmann arrivò a definire l’esperienza sul set de Scene da un matrimonio più vicina al documentario che non alla recitazione – e a quello di cui fu diretto testimone. Quello dei suoi genitori, Karin ed Erik Bergman, fatto di violenza fisica e manipolazioni. Con un budget di appena un terzo rispetto al precedente Sussurri e grida, coperto per metà dalla Cinematograph AB e per metà dalle case di distribuzione straniere, Scene da un matrimonio racconta di Johan (Erland Josephson), un professore-ricercatore in un istituto universitario psicotecnico, e di Marianne (Liv Ullmann), un’avvocatessa socia di uno studio legale.
Hanno due figlie, sono sposati da dieci anni, e sono il prototipo della coppia felice. Una sera, durante una cena, assistono al violento litigio degli amici Peter (Jan Malmsjö) e Katarina (Bibi Andersson) che porterà infine al divorzio. Johan e Marianne, una volta a casa, si rallegrano. Sanno di essere l’eccezione che conferma la regola. Di lì in avanti una sottile e tragica ironia arriverà a scandire il loro cammino di vita aprendo la porta a rancore e nuovi amori, dolore e sofferenza, e infine rinascita e nuova forma. La vita artistica di Scene da un matrimonio è certamente delle più insolite. Concepito originariamente come miniserie televisiva in sei puntate trasmesse tra l’aprile e il maggio del 1973 sul canale SVT2, il successo riscosso in patria spinse Bergman a rimontare i 281 minuti originari della narrazione (mini)seriale asciugandoli a 167 di forma filmica. È in questa versione che Scene da un matrimonio s’è saputo cristallizzare nella memoria comune come una delle opere più imprescindibili dell’opus bergmaniano. Abbastanza da generare trent’anni più tardi un sequel televisivo dal titolo Sarabanda con ancora Josephson e Ullmann nei panni di Johan e Marianne; nel 2021 un remake targato HBO secondo l’originale forma (mini)seriale con cui raccontare di gioie e dolori di Jonathan (Oscar Isaac) e Mira (Jessica Chastain); nonché una mole semi-infinita di omaggi, citazioni e riletture tra cui spiccano Mariti e mogli di Woody Allen, Loveless di Andrej Zvyagintsev, nonché il quasi omonimo dalla similare matrice biografica, Storia di un matrimonio di Noam Baumbach.
All’indomani della messa in onda svedese il tasso di divorzi aumentò vertiginosamente, così come il numero di coppie sposate in cerca di un consulente matrimoniale. A detta del Maestro di Uppsala, Scene da un matrimonio è sempre stato concepito per un pubblico di massa. Rimase tuttavia sbalordito dalla reazione generata. Arrivò perfino a dover cambiare numero di telefono per sfuggire dalla raffica di richieste di consigli di coppie in crisi. Molti accusarono l’opera perfino di minare l’istituzione del matrimonio insegnando alle coppie ad affrontare apertamente i problemi relazionali anziché giungere al compromesso. In realtà, a detta di molti sociologi moderni, più che causa dell’aumento dei divorzi film e serie andrebbero intesi come un sintomo. L’opera bergmaniana infatti vide l’eco narrativa in dote propagarsi in modo incontrollato grazie ad un’impareggiabile tempismo vitale che finì, involontariamente, con l’amplificare la portata valoriale del racconto attraverso i venti di cambiamento sociale legati all’emancipazione della donna e la rivoluzione sessuale degli anni settanta. Forte infatti della sua struttura ontologicamente episodica in forma (mini)seriale ma implicitamente resa tale attraverso la forma filmica, Scene da un matrimonio ci accompagna per mano in un viaggio dentro i ricordi decennali di una coppia solo apparentemente felice. Per svelare, sotto il velo di ipocrisia e perbenismo, in che modo l’incomunicabilità tra uomo e donna incide sulle mutevoli forme dell’amore; ora violento e manipolatorio, ora dolce e affettuoso. Così, sullo sfondo di un dramma umano tra due analfabeti sentimentali, Bergman dà vita ad una caustica battaglia dialogica dal granitico impianto registico teatrale tra due esseri imperfetti e caratterialmente coloriti. Lui, manipolatore egocentrico, narcisista e prevaricatore. Lei, sottomessa e in continua ricerca dell’approvazione degli altri anteponendo i propri bisogni.
Con il progressivo collasso dell’unità familiare, Bergman procede operando una destrutturazione del rapporto di coppia con cui avvolgere il dispiego del conflitto scenico di evoluzioni caratteriali da manuale che, nel continuo ribaltamento dell’inerzia relazionale tra i due, giunge infine a un climax rivelatore il cui «Non si è perso qualcosa di importante? Credo che in fondo c’è il rimpianto di non aver amato nessuno e che nessuno mi abbia amato» pronunciato da Marianne, consegna al buio dei titoli di coda un Johan addolcito, o per meglio dire indebolito, dalla vita, e una Marianne stessa finalmente padrona di sé e consapevole dei suoi bisogni ma non del tutto libera dagli strascichi dei fantasmi del passato. Fughe e ritorni, letture dell’anima e passioni travolgenti, violenza e comprensione, tutti elementi di Scene da un matrimonio cuciti addosso a due archi di trasformazione dall’evoluzione analitica da saggio antropologico. Della sua lavorazione Bergman ne parlerà come gioia assoluta. Un po’ meno Sven Nykvist che, per via dell’originaria natura produttiva, si rammaricò di aver privilegiato perlopiù primi piani e riprese d’interni anziché far uso di carrellate. Per via dell’inerzia con cui s’è passati dal piccolo al grande schermo, Scene da un matrimonio fu squalificato dalla corsa all’Oscar per il Miglior film straniero 1975. A nulla servì una lettera aperta firmata da 24 registi tra cui Frank Capra e Federico Fellini tentando di convincere l’Academy a tornare sui propri passi. Lo stesso non potrà dirsi del successivo Fanny & Alexander.
Memore della lezione burocratica del decennio precedente, Bergman programmerà opportunamente la trasmutazione del suo magico capolavoro da opera filmica a (mini)seriale, sbancando agli Oscar 1984: 4 vittorie tra cui film straniero e fotografia per Nykvist, a fronte di 6 nomination. Nonostante la splendida esperienza sul set e l’ineguagliabile valore dell’opera, ancora oggi la Ullmann rimpiange di quando Bergman propose al cast di scegliere tra l’ingaggio sicuro e i profitti aleatori sulla percentuale della distribuzione televisiva. Scelse la prima convinta che, proprio come il precedente Sussurri e grida, anche Scene da un matrimonio sarebbe stato un insuccesso commerciale. Così non fu. A Josephson andò decisamente meglio. Scelse la seconda opzione fieramente convinto del successo televisivo dell’opera. I due, escluso il sopracitato Sarabanda, torneranno a far coppia nel 1976 con L’immagine allo specchio. Quello stesso anno, nel pieno della pre-produzione de Lo squalo 2, gli proposero il ruolo del biologo marino Hooper (nell’originale di Spielberg con il volto di Richard Dreyfuss). Josephson rispedì l’offerta al mittente con la frase: “preferirei avere battaglie intellettuali con Liv Ullmann che combattere con uno squalo”. Il ruolo di Hooper fu poi cancellato. Lo squalo 2 fu un flop conclamato. Che dire, al cuore non si comanda, ma Bergman – che dell’originale di Spielberg era un grande estimatore – si che ne sarebbe stato fiero.
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