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Alien | Ridley Scott, Sigourney Weaver e la modernità di un capolavoro

Walter Hill, Dan O’Bannon, Veronica Cartwright, la “vera” Ripley e quell’aura femminista. Su Disney+

Alien | Ridley Scott e quel Dieci Piccoli Indiani nello spazio profondo
Alien | Ridley Scott e quel Dieci Piccoli Indiani nello spazio profondo

ROMA – «In pratica è solo un’intergalattica casa stregata di genere thriller, ambientato all’interno di un’astronave». Fu lapidario Roger Ebert nel giudicare Alien, l’opera seconda di Ridley Scott del 1979. L’eminente critico non lo ritenne lontanamente all’altezza di pietre miliari fantascientifiche del calibro di Incontri ravvicinati del terzo tipo e Star Wars. Eppure, nonostante la critica dell’epoca vi fosse avversa, la prova del tempo ha dimostrato come sia praticamente impossibile immaginare non soltanto un’intera industria cinematografica, ma anche l’intero opus filmico del suo autore, senza considerare l’apporto narrativo offerto da Alien (lo trovate su Prime Video e Disney+). All’indomani del successo de I duellanti, Scott riuscì a cavalcare i venti creativi prossimi a spirare della New Hollywood imprimendo una visione autoriale indelebile con cui dare definitivamente il là all’esplosione narrativa della fantascienza così da incanalarla verso binari di genere dai caratteri più netti e riconoscibili.

Alien: la fantascienza secondo la New Hollywood
Alien: la fantascienza secondo la New Hollywood

Durante i suoi studi di cinema californiani, Dan O’Bannon scrisse quel gioiellino di fantascienza umoristica di Dark Star – che di John Carpenter diventerà l’opera prima nel 1974 – riprendendone poi il concept nel 1977 per riadattarlo in chiave horror. A detta di O’Bannon infatti: «Sapevo di volere fare un film horror su una nave spaziale con pochi astronauti a bordo. Una sorta di Dark Star in chiave horror invece che comica». L’idea piacque tantissimo a Ronald Shusett che, concluso il primo draft di Atto di forza, salì a bordo del progetto. Non un aggiunta di poco conto. Prima di Shusett infatti O’Bannon aveva scritto appena ventinove pagine dello script e non aveva ancora ben chiaro quale sarebbe potuto essere il turning point cardine: Alien era privo di una qualsiasi identità.

Bolaij Badejo dà le fattezze allo xenomorfo di Alien
Bolaij Badejo dà le fattezze allo xenomorfo

Poco dopo O’Bannon rinunciò e iniziò a collaborare con Alejandro Jodorowsky per l’adattamento (mancato) di Dune di Frank Herbert. Nei successivi sei mesi visse a Parigi dove conobbe decine di artisti tra cui il surrealista Hans Ruedi Giger. L’artista svizzero, i cui dipinti furono definiti dallo stesso O’Bannon come «Qualcosa di così orribile e meraviglioso allo stesso tempo», gli diedero il là per inquadrare la giusta direzione di Alien. Non a caso lo stesso Giger sarà poi assunto in pre-produzione per delineare i contorni del leggendario xenomorfo. Nel delineare lo script O’Bannon trasse ispirazione da opere di science fiction e horror della miglior specie: La cosa da un altro mondo fornì l’idea di una minaccia in uno spazio contenuto, Il pianeta proibito quella dell’astronave che atterra in un pianeta sconosciuto, Il mostro dell’astronave diede il là per l’incipit. Non ultimo Terrore nello spazio per le atmosfere sceniche.

«Non rubai Alien a nessuno in particolare. Lo rubai un po' da tutti!»
«Non rubai Alien a nessuno in particolare. Lo rubai un po’ da tutti!»

Qualcosa di cui lo stesso O’Bannon era pienamente consapevole affermando in via scherzosa come: «Non rubai Alien a nessuno in particolare. Lo rubai un po’ da tutti!». Presentato a varie case di produzione con la dicitura «Lo squalo nello spazio profondo», ancor prima che si facesse il nome di Ridley Scott, il più vicino ad avvicinarsi alla cabina di regia fu quel Walter Hill della Brandywine (filiale della 20th Century Fox) fresco del successo di Driver – L’imprendibile. In procinto di firmare, tuttavia, né O’Bannon né Shusett erano entusiasti all’idea di lavorare con lui. Non ritenevano avesse l’occhio giusto per trasporre un soggetto dalla simile inerzia, eppure fu di Hill l’idea di ampliare la dimensione narrativa dell’ufficiale scientifico Ash come villain machiavellico. Elemento che se O’Bannon risultava del tutto superfluo nell’economia del racconto, Shusett rese tra i punti di forza dello script.

Sigourney Weaver è Ellen Ripley in una scena di Alien
Sigourney Weaver è Ellen Ripley

Otto draft dopo l’impronta di Hill si vide, dando ai dialoghi maggior naturalezza e vita. Uscito di scena Hill, che dal canto suo preferì dedicarsi alla regia de I guerrieri della notte/The Warriors pur restando come produttore, la regia di Alien fu offerta dalla 20th Century Fox a svariati registi prima di arrivare a Ridley Scott: Peter Yates, Jack Clayton, perfino Robert Aldrich che era ritenuto da tutti l’ideale ma che al colloquio si rese protagonista di un aneddoto tra il preoccupante e lo spassoso. Oltre ad immaginare lo xenomorfo interpretato da un orango rasato, quando Hill e il resto dei produttori gli chiesero come avrebbe reso il momento topico dell’infezione, sembrerebbe che Aldrich propose con la sua aria spavalda di: «Lanciare un pezzo di carne cruda in faccia all’attore».

L'ormai mitico Facehugger di Alien
L’ormai mitico Facehugger

Poi una folgorazione: I duellanti. Tutti realizzarono che era Scott l’uomo giusto per Alien. La 20th Century Fox raddoppiò il budget da 4 a 8 milioni di dollari e lo script fu adattato maggiormente alla sua visione rimarcandone l’aspetto orrorifico. Lo immaginava come fosse una sorta di Non aprite quella porta in chiave fantascientifica. Le curiosità più rilevanti riguardano però il casting, a partire dalla scelta del volto di Ellen Ripley. Il terzo ufficiale a bordo del Nostromo diede notorietà a Sigourney Weaver che con Alien trovò le luci della ribalta hollywoodiane dopo tanta gavetta teatrale. L’ultima a essere scritturata – nonché la prima in termini narrativi – la Weaver fu segnalata a Scott da Warren Beatty che ne rimase piacevolmente sorpreso vedendola in uno spettacolo Off-Broadway.

Veronica Cartwright: l’originale Ellen Ripley

Come molti già sanno originariamente il ruolo di Ripley fu offerto a Meryl Streep che tuttavia rinunciò alla parte perché ne fraintese la ratio filmica: pensò fosse l’ennesimo horror a basso budget. Quello che invece sanno in pochi è che originariamente il volto di Ripley sarebbe dovuto essere quello di Veronica Cartwright. L’attrice, che poi interpreterà il timoniere Lambert, fu provinata e scritturata da Scott come Ripley. Giunta sul set però, la Cartwright scoprì che i piani della produzione erano cambiati: da Ripley divenne il volto di Lambert. Personaggio la cui fragilità strideva con le scelte artistiche della Cartwright fino a quel punto, lo sentiva poco suo, ma accettò comunque la parte: «Mi convinsero che rappresentavo la paura del pubblico, che ero un riflesso di quello che avrebbero provato gli spettatori in sala».

Harry Dean Stanton è Brett in una scena di Alien
Harry Dean Stanton è Brett

Quando Harry Dean Stanton fece l’audizione per Alien la prima cosa che disse davanti al casting director è che non gli piacevano gli horror fantascientifici. In tutta risposta Scott lo rincuorò assicurandogli che non era un horror, più un Dieci piccoli indiani nello spazio siderale. O per meglio dire: sette piccoli indiani con in più un alieno sputa-acido. Una definizione spicciola che però ben rende l’essenza di un’opera tanto grande nella forma registica quanto piccola nella sua natura narrativa. In un incipit che riecheggia a Star Wars e a una nuova tradizione di linguaggio filmico di genere, Alien apre il racconto in opposizione rispetto alle scelte stilistiche di Lucas. Sullo sfondo dello spazio siderale infatti, due opere agli angoli opposti per ritmo e atmosfere nel reticolato di sfumature di genere della fantascienza, agiscono nella medesima direzione: in medias res, grafica accattivante su sfondo nero, ambiente dal contesto narrativo immersivo.

Il risveglio della ciurma Nostromo

Prende così forma un racconto che è pura codifica d’immagini filmiche iconiche come il risveglio della ciurma del Nostromo o l’approdo nella spettrale nave aliena. Sequenze a cui Scott dà un sapore di rinascita. Che sia nella composizione d’immagine nursery tra la dimensione fisica dei gusci e le vesti di cui sono coperti nella compostezza di un silenzio spirituale e luminoso dall’inerzia interrotta soltanto dallo scatto delle dissolvenze volte a scandire ogni movimento delicato del risveglio degli uomini del Nostromo, o nella nave aliena – quest’ultima dalla fotografia dicotomicamente buia, tetra, spettrale – a cambiare è l’inerzia della rinascita: pacifica per gli umani/violenta e parassitica per l’alieno. Scott costruisce così un solido contesto narrativo in una regia veloce che nel dar colore e vita alla Nostromo tra marchingegni tecnologici e grafiche accattivanti, pone accenni caratteriali agli agenti scenici, per poi gettarli nella mischia di un intreccio solido ma minimale.

Le ombrose scenografie aliene

Nel suo perfetto equilibrio gerarchico-relazionale Scott ne smobilita la rigidità manipolando la percezione delle tipicità narrative e dei punti di vista scenici in un susseguirsi di coscienze del racconto. Voci degli Ash, Dallas e Kane, maschi alfa archetipici che vanno a sovrapporsi per poi dissolversi nel dispiego di un intreccio da cui emergono gradualmente, in modo silenzioso e sottinteso (quasi) tra le righe, il ruolo di Ripley, Lambert e Parker. È proprio in questo passaggio, in quest’inerzia specifica, che Alien sprigiona tutta la sua carica innovativa di freschezza narrativa. Perché partire con tre voci/protagonisti maschili bianchi caucasici per poi far emergere la competenza, la voce e la dimensione narrativa di due donne e un uomo appartenente a una minoranza etnica a quel tempo significava fare la rivoluzione: di quelle capaci di aprire un intero mondo di possibilità produttive di parità di genere.

Ian Holm è Ash, l'ufficiale scientifico in una scena di Alien
Ian Holm è Ash, l’ufficiale scientifico

Un’ulteriore curiosità riguarda la gestione del climax. Per Alien furono concepiti due finali: uno realizzato e poi modificato in corso d’opera da Scott, l’altro soltanto sognato. Script alla mano Alien avrebbe dovuto concludersi con la distruzione del Nostromo con Ripley che fuggiva nella navicella di salvataggio Narcissus, un più che tipico topos di genere da survival horror. Scott sentiva però di voler regalare una sorpresa al suo pubblico. Aggiunse così un’appendice filmica: fece ricomparire l’alieno sulla navicella costringendo Ripley a confrontarsi con l’essere faccia a faccia. Un capolavoro di claustrofobia registica (di cui Scott soffre per davvero, quindi vibrante e corposa) a cui la 20th Century Fox diede il via. Nella versione di Scott però, Ripley restava uccisa e l’alieno annunciava il suo arrivo sulla Terra imitando la voce del defunto Dallas. Ipotesi bocciata dai produttori che volevano un finale meno cupo e netto (avrebbe decretato la fine del franchise).

Ripley e il gatto Jonesy
Ripley e il gatto Jonesy

Siamo nel 1979. Ellen Ripley è un personaggio dalla fama pari ad Han Solo. Ridley Scott ha in mano le chiavi di un franchise formidabile la cui base narrativa è l’impareggiabile unione di sci-fi, marcato e sanguinolento body-horror, e tagliente tensione da survival horror: l’inizio di una nuova era produttiva e narrativa per la fantascienza. Quarantacinque anni, una quadrilogia, una trilogia mancata, tre spin-off (e tanto altro) dopo, la saga di Alien vive, muore, rinasce e prospera esattamente come le uova caratteristiche della sua narrazione. Un franchise che poggia tutto sulle spalle della visione su carta di O’Bannon resa grande dall’ambizione registica di uno Scott già grande dopo I duellanti ma che con Alien saprà sfiorare il mito (per poi raggiungerlo con Blade Runner).

Alien: un franchise dalle mille risorse
Alien: un franchise dalle mille risorse

Una saga di cui Scott offre la sua chiave interpretativa: «Tutti gli Alien diretti da me sono legati al mio credo nell’esistenza di forme extraterrestri. Non credo nel fatto che siamo “semplicemente” il risultato di un incidente biologico. Credo in uno spirito supremo». Quello di Scott è più semplicemente un bisogno ontologico di scoperta e curiosità, di immaginare e di esplorare nuovi mondi: «Sul nostro pianeta abbiamo ancora più del 80% delle specie da classificare, persino il posto dove abitiamo per noi è ancora un mistero. Se guardi la complessità dell’Universo, è assurdo pensare di essere l’unica forma vivente e pensante, eppure nel 1979 nessuno credeva negli alieni. Per me è più facile credere alla possibilità dell’esistenza di milioni di pianeti come il nostro, che alla teoria dell’evoluzione».

Qui sotto potete vedere il trailer del film:

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