ROMA – «L’Avventura mi ha dato uno degli shock più profondi che abbia mai avuto al cinema, ancora di più di Fino all’ultimo respiro e Hiroshima Mon Amour, anche di più de La Dolce Vita». A dirlo è un intenditore di nome Martin Scorsese che in quanto a cinema ne sa più di tutti. Perché l’opera firmata nel 1960 di Michelangelo Antonioni – primo capitolo della Trilogia dell’incomunicabilità che andrà poi a dipanarsi nel biennio successivo tra La notte e L’Eclisse – è più che semplice cinema: è sfida artistica, o per dirla sempre con le parole di Scorsese, qualcosa di differente: «Amavo i quadri di Fellini e ammiravo La Dolce Vita, sì, ma ero sfidato da Antonioni e da L’Avventura. Ha cambiato la mia percezione del cinema e del mondo intorno a me. C’è una narrativa di luce, spazio, oscurità, che sembra arte analitica…».
Insomma, un’esperienza cinematografica che segnò per sempre Scorsese: «Ero ipnotizzato da L’Avventura e dai film successivi di Antonioni, era come se fossero irrisolti nel senso convenzionale, come se continuassero a farmi tornare indietro. Hanno posto il mistero di chi siamo, cosa siamo, gli uni agli altri, a noi stessi, al punto che si potrebbe dire che Antonioni guardasse direttamente ai misteri dell’anima. Ecco perché ho continuato a tornare indietro: credo volessi continuare a vivere dentro quelle immagini, a vagarci attraverso. E lo faccio ancora». Perché quelle immagini di estate siciliana tra le Isole Eolie, Noto e Taormina incise da Antonioni di un bianco e nero avvolgente, dove luci e ombre diventano linee di composizione nel tracciare un disegno d’alienazione dell’individuo, vanno a comporsi in un racconto intimo sulla ferocia di sentimenti (vacui) e intenti (egoistici) della natura umana, sulle sue ipocrisie, ma anche sulla ricerca di sé nel ritrovarsi.
Tutto a partire da quell’incipit, la sparizione di Anna (Lea Massari), la sua dissolvenza che è presenza ectoplasmatica per tutto il proseguo del racconto. Pietra narrativa da cui poi Antonioni sguinzaglia la ricerca – e conoscenza – di Claudia (Monica Vitti) e Sandro (Gabriele Ferzetti) che diventa esplorazione dell’altro tramite piccoli gesti nel raggiungimento di un’unione salvifica di due esseri disperati e alienati. Sino a quel climax leggendario («Mette in scena uno dei finali più belli in assoluto, piango ogni volta che lo guardo» disse Scorsese) dove una semplice carezza sulla nuca lascia che la corruzione d’animo e l’egoismo prendano definitivamente il posto della comprensione e dell’Amore. Di differente lettura Antonioni che vedeva invece ne L’Avventura un racconto giallo di evasione e libertà dai dilemmi morali: «Tutti i personaggi dei miei film combattono questi problemi, hanno bisogno di libertà, cercano la libertà, ma non riescono a liberarsi della coscienza».
Non solo, Antonioni poi elaborò un concetto molto moderno, che potremmo adattare all’era digitale: «L’uomo scientifico è sulla luna, eppure viviamo ancora con i concetti morali di Omero. Da qui questo turbamento, questo squilibrio che rende le persone più deboli, ansiose e apprensive che rende loro così difficile adattarsi al meccanismo della vita moderna. In futuro questi concetti perderanno la loro rilevanza, l’uomo si riconcilierà con la sua natura così che lo spazio diventerà il suo vero sfondo». Da qui poi, una riflessione sulla dimensione caratteriale del Sandro di Ferzetti: «È completamente immerso nei problemi morali del suo tempo, è italiano e cattolico, quindi ne è vittima». Non è un caso se L’Avventura rimane oggi più vicino alla nostra generazione di spettatori e animali sociali – tanto da essere citato tra The White Lotus e Master of None – che non alla sua epoca di riferimento.
Non a caso, quando fu presentato in concorso a Cannes il 15 maggio 1960, per L’Avventura fu un susseguirsi di risate a partire dai titoli di testa, che divennero presto fischi nelle sequenze più lunghe, fino ad arrivare alle urla, tanto da costringere Antonioni e una Vitti in lacrime («Fu un disastro la prima a Cannes», dirà in seguito) a lasciare la sala gremita di critici e addetti ai lavori. La percezione cambiò drasticamente alla seconda proiezione, tanto da arrivare ad essere insignito del Prix spécial du Jury, ma non la Palma d’Oro – per quella chiedere a Fellini e La Dolce Vita. Eppure per molti anni il film ha vissuto di un pessimo retaggio al punto da essere pubblicamente deriso dall’intellighenzia dell’epoca e Antonioni accusato di oscenità e immoralità. Il tempo, fortunatamente, ha poi deciso diversamente.
Nemmeno due anni dopo la rivista Sight & Sound elesse L’Avventura come il secondo miglior film di tutti i tempi dopo, ovviamente, l’immancabile Quarto Potere. Così da riequilibrarne la dimensione critica di un’opera che oggi come ieri, sessantatré anni dopo, è dichiarazione unificata sulla malattia della vita emotiva nei tempi contemporanei, da dove nacque però l’intuizione alla base del film? Da un viaggio in crociera in Sicilia verso la fine degli anni Cinquanta. Approdati a Ventotene, la Vitti si perse e Antonioni – con la mente vivida da grande regista qual era – immaginò «Una storia su una ragazza che sparisce su un’isola». Ma fu molto di più di questo la lavorazione de L’Avventura per chi vi prese parte, basti pensare che le scene all’indomani della sparizione di Anna dalle tre settimane preventivate nel piano di lavorazione si tramutarono in quattro mesi.
Nel mezzo ci furono isole infestate da topi, zanzare e rettili, condizioni climatiche avverse, navi della marina noleggiate e mai apparse, zattere di fortuna. Il risultato? Dopo circa una settimana dall’inizio delle riprese, la produzione dichiarò fallimento lasciando la troupe a corto di cibo e acqua (oltre che senza paga). Per via del maltempo poi, cast e troupe rimasero bloccati per tre giorni su Lisca Bianca senza cibo né coperte. Il susseguente sciopero che ne derivò costrinse Antonioni a rimboccarsi le maniche: «Ho con me ventimila metri di negativo, ho la macchina da presa e pochi amici: Monica Vitti, i miei aiuti Franco Indovina e Gianni Arduini, lo scenografo Piero Poletto, l’operatore Aldo Scavarda, il fonico Claudio Maielli. Ecco la mia troupe. I soli pronti a seguirmi con qualsiasi mare, contro qualsiasi ostacolo materiale e morale, per non fermare il film».
Una situazione surreale degna del Vietnam di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (qui per il nostro Longform) che vedeva Antonioni in condizioni estreme: «Mi svegliavo ogni mattina alle tre per stare da solo e riflettere su quello che stavo facendo, per ricaricarmi contro la stanchezza e da una strana forma di apatia, o mancanza di volontà, che spesso prendeva tutti noi». Diverse settimane dopo caratterizzate da difficoltà, ritardi, e una Lea Massari finita in coma per due giorni per difficoltà cardiache, la Cino del Duca P.G.A., nella figura di Amato Pennasilico accettò di finanziare L’Avventura inviando ad Antonioni i soldi necessari per portare a casa quello che lui ha sempre difeso: «Ma non è un film per mostrare la nascita di un sentimento errato, ma il modo in cui ci si smarrisce nei nostri sentimenti». E a oggi uno dei più grandi film italiani mai realizzati.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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