ROMA – Se non fosse che lungo la sua prolifica attività registica Billy Wilder ha sfornato opere una più incisiva dell’altra si potrebbe perfino definire L’appartamento il capolavoro che vale la carriera. E in effetti lo è, ma forse anche qualcosa in più. Vincitore di cinque Oscar nel 1961 tra cui film, regia, e sceneggiatura originale, più che semplice capolavoro, quello de L’appartamento è un manifesto. Una summa. Un viaggio tra le correnti mutevoli e contrastanti del suo cinema reso possibile da una scrittura multitonale con cui rielaborare la lezione di Ernst Lubitsch – di cui Wilder fu collaboratore per Ninotchka – in chiave moderna. Quell’intrinseca capacità di giocare con i generi con naturalezza, passando dal noir (La fiamma del peccato, Viale del tramonto), al comico (A qualcuno piace caldo), al drammatico (Giorni perduti). Qualcosa di cui era pienamente consapevole lo stesso Wilder che al riguardo sceglieva sempre di non classificare il genere dei film realizzati, lasciando la parola al pubblico: «Aspetto l’anteprima. Se il pubblico ride molto dico che è una commedia. Altrimenti un film serio, o un film noir». Il bello de L’appartamento è che riesce a essere, contemporaneamente, ognuna di queste cose.
Liberamente ispirato a La folla di King Vidor, nonché apogeo del sodalizio artistico con I. A. L. Diamond (Arianna, A qualcuno piace caldo, Irma La Dolce, Non per soldi… ma per denaro, Prima pagina, Fedora), nei progetti iniziali L’appartamento sarebbe dovuto essere una commedia teatrale salvo poi riconsiderare il concept come cinematografico. Questo per via dell’imponente ufficio al centro del racconto, impossibile da ricostruire su un palcoscenico. Leggenda narra che per i campi lunghi a perdita d’occhio dalla prospettiva forzata dell’ufficio assicurativo Wilder avesse utilizzato scrivanie sempre più piccole arrivando perfino ad ingaggiare nani e bambini nelle ultime file. Al centro del racconto, Jack Lemmon, assoluto protagonista. Wilder scrisse pensando a lui il ruolo di CC Baxter (poi Ciccibello nel doppiaggio italiano) e dopo il successo di A qualcuno piace caldo Lemmon accettò a scatola chiusa. Non lesse nemmeno una pagina del copione: «Avrei firmato anche se mi avesse detto che avrei dovuto recitare l’elenco telefonico». Discorso diverso per Fred MacMurray. Nonostante il precedente wilderiano de La fiamma del peccato era dubbioso sull’accettare perché riteneva infatti il ruolo di Jeff Sheldrake talmente odioso da fargli perdere appeal come interprete.
Chi invece non ebbe dubbi fu Shirley MacLaine. Quando Wilder le propose la parte di Miss Kubelik le diede solo quaranta pagine dello script, lasciandola ignara della risoluzione del conflitto scenico e di quel Shut Up and Deal divenuto iconico. Si convinse all’istante, e le disse bene. Per L’appartamento infatti la MacLaine vinse la Coppa Volpi come attrice alla 21° Mostra di Venezia. Ma facciamo un passo indietro: è un’interessante scelta quella effettuata da Wilder per l’apertura di racconto de L’appartamento. Tra monologo in voice-over e costruzione d’immagine infatti Wilder delinea il tono del racconto, disegna il contesto scenico, presentandoci la trovata che funge da base drammaturgica del conflitto: l’appartamento prestato (escamotage narrativo, quest’ultimo, dichiaratamente preso in prestito da Breve incontro di David Lean). Prende così forma il racconto in un formidabile campo lungo che, accanto alle cifre da bollettino fieramente pronunciate da Lemmon in voice-over, ci introduce nell’arena del conflitto a perdita d’occhio declamando la grandezza della fittizia Consolidated Life simulacro del capitalismo e della crescita del benessere nel Secondo Dopoguerra americano.
Poi il colpo di genio: una delicatissima dissolvenza che lascia Baxter al centro dell’arena intento nel suo straordinario. Nella solitudine dell’ufficio Wilder maschera il senso d’alienazione dell’individuo nella società moderna attraverso un tono comico-ironico il cui insito contrasto narrativo giova al racconto arricchendolo di senso. Wilder ci guida così sin nei meandri della vita di Baxter costruendo un primo atto da manuale. Introducendo infatti la causale del colorito utilizzo dell’appartamento Wilder alza sensibilmente la posta in gioco ravvivando in più modi il sopracitato contrasto. Mostrandoci così Baxter che rassetta il disordine lasciato dal dirigente di turno, che fa cincin in solitaria, che mangia cibi precotti davanti la televisione ritrovandosi infine a dormire per strada come fosse un senzatetto, vittima consapevole del suo stesso gioco da yuppie. Un intero mondo narrativo di cui la fioca e solitaria luce del televisore dell’appartamento da scapolo ne rappresenta il simulacro. Una luce però che Wilder avvolge attorno al Baxter/uomo moderno testimoniandone una crisi di valori che – complice le correnti trasformiste socio-culturali del proprio tempo – finiscono con il renderlo de-personalizzato, spettatore delle vite altrui, senza legami, impegnato com’è nel perseguire l’I Wish alla base del capitalismo.
Qualcosa quest’ultima che Wilder strumentalizza magistralmente ampliando i confini della dimensione caratteriale di Baxter: un solitario workaholic ritenuto dai vicini scapestrato dongiovanni. Una duplicità sagace che nonostante l’evidente forbice caratteriale tra i due mondi resterà salda a dispetto del progressivo crollo dell’escamotage del racconto lungo il dispiego dell’intreccio. Di qui in avanti Wilder mette lo spettatore di fronte al cuore de L’appartamento. Una mutevolezza tonale armonica e raffinata che guida le corde della narrazione dalla commedia ironica con punte di malinconia alla dramedy romantica attraverso turning point dal sapore ora di sophisticated-comedy, ora di dramma tagliente. Un contrasto ontologico tutto codificato attorno al triangolo relazionale Baxter-Kubelik-Sheldrake con cui costruire l’oggetto di valore romantico e al contempo rompere il malsano equilibrio narrativo frutto dell’espediente del racconto. In pieno secondo atto infatti, tra uno specchio rotto a metà di promesse d’amore irrealizzate, cento dollari come regalo di Natale, e un tragico evento semi-delittuoso, Wilder sguinzaglia la forza filmica della trasformazione degli archi narrativi dei suoi protagonisti spingendoli sino alle porte di un inferno di dolore e rammarico. Sceglie di salvarli però. Di recuperali appena per i capelli.
Rendendoli consapevoli dei propri limiti di essere umani (nel caso della Kubelik) e riscopritori della propria integrità umana/mensch apparentemente perduta (nel caso del de-personalizzato uomo moderno/Baxter). In tal senso nonostante la narrazione de L’appartamento proceda per un andamento decisamente netto lungo la sua struttura a tre atti, è nella costruzione di un climax di romantiche epifanie che l’opera di Wilder vede i suoi intenti filmici come rallentati, lasciati opportunamente respirare. Prima di quel Shut Up and Deal che consegna L’appartamento tra i grandi classici della notte di Capodanno infatti Wilder codifica in modo meticoloso ogni tappa dell’evoluzione. Procede così gradualmente. Prima riequilibrando il conflitto interiore di Baxter facendogli rinunciare ai privilegi dell’agognata promozione, poi tagliando di netto i tossici legami lavorativi senza per questo però rinunciare alla propria aura da dongiovanni: autentica maschera goffmaniana di vergogna per la propria condizione pregressa. Terreno narrativo fertile con cui Wilder mette la freccia, avvolge L’appartamento in un più sereno tono da commedia sentimentale, adagiandolo infine verso un sereno e inaspettato happy ending che è romantico crollo dei valori della società capitalistica in favore della gioia del vivere semplice. Oltre che impareggiabile opera sociologica L’appartamento ha rappresentato negli anni sessanta la cartina tornasole dello stato di salute del cinema moderno americano.
Un cinema che ha visto rapidamente imporre le visioni registiche straniere (tra gli altri) di Hitchcock, Kurosawa, Godard, Leone, e contemporaneamente la crescita di quella primordiale e sperimentale modernità narrativa che cinque anni dopo darà forma e colore alla New Hollywood. Oltre a tutto questo però c’è ancora il cinema Old-Fashioned. Quello delle grandi storie e dei grandi interpreti concepito per vaste platee di pubblico. Quello della immortale e sempreverde Golden Age Hollywoodiana. In questo vi rientra pienamente L’appartamento che sembra però come sedotto dalle gemme del cambiamento (ormai) imminente. Un’opera dall’evidente classicità strutturale che vive però degli ancora più evidenti guizzi di modernità nei suoi cambi di tono e genere. Perfino del modo in cui l’archetipo dell’uomo moderno accantona i valori capitalistici andando in cerca di un nuovo inizio. Un’opera unica e mutevole L’appartamento. Tradizionale e progressista. Capace di leggere il suo tempo e perfino d’anticiparne il futuro. Regalandoci infine quella coppia da sogno Lemmon-MacLaine la cui chimica palpitante vedrà ancora la luce nel successivo (e spassosissimo) Irma La Dolce – manco a dirlo – registicamente targato Billy Wilder.
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VIDEO | Qui il trailer del film:
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