ROMA – «Quello che mi colpisce è che non c’è mai stato un film sui POWs (Prisoners of War)» dice il personaggio di Cookie (Gil Stranton) in apertura di racconto. Parole affidate in sceneggiatura a un voice-over efficace, tra il serio e lo scanzonato, nel buio della sera di un campo di concentramento. E ha ragione Cookie, non c’è mai stato ad Hollywood un film incentrato sui prigionieri di guerra in un campo nazista, non prima del 1953 e di Stalag 17 perlomeno. Un’opera originale, in perfetto bilico tra dramma e commedia con spruzzate di commovente malinconia esorcizzante l’orrore più puro e misero della guerra nella sua scrittura brillante multitonale – è del Billy Wilder de L’appartamento che stiamo parlando del resto – su cui, in realtà ci credettero proprio in pochi al tempo.
Non tanto Wilder che dalla sua ha sempre detto: «Mi sono limitato a fare film che mi sarebbe piaciuto vedere, e se ero fortunato questo coincideva con i gusti del pubblico», lasciando quindi agli spettatori il compito di giudicare ed etichettare il film. «Quando realizzo un film non lo classifico mai. Aspetto l’anteprima. Se il pubblico ride molto dico che è una commedia, sennò un film serio o un noir» quanto gli executives della Paramount Pictures che dalla loro ritenevano Stalag 17 un progetto rischioso. Del resto non è che la storia recente di Wilder lo favorisse particolarmente. Il precedente L’asso nella manica del 1951 fu un clamoroso insuccesso commerciale – non artistico – per la Paramount.
Per facilitarne la distribuzione europea, ritardata di un anno peraltro (Stalag 17 fu presentato a Londra il 29 maggio 1953) in concomitanza con il rilascio dei prigionieri della Guerra di Corea perché nessuno, alla Paramount, credeva che il pubblico si sarebbe potuto interessare a un film dai toni relativamente leggeri – un po’ alla maniera del successivo MASH di Robert Altman (di cui potete invece leggere qui) – su dei prigionieri di guerra, qualcuno pensò bene di suggerire a Wilder di rendere i carcerieri del campo polacchi, anziché tedeschi (la Germania dell’Ovest era un mercato cinematografico molto florido). Wilder, austriaco di famiglia ebrea che perse i genitori Max Wilder ed Eugenia Dittler nel campo di concentramento di Auschwitz, respinse furiosamente il folle suggerimento e per poco non piantò in asso l’intera lavorazione.
Non successe nulla fortunatamente, ma quando si trattò di spartire i dividendi dei floridi incassi (3 milioni e mezzo al solo box-office statunitense e canadese), arrivò una pessima sorpresa per Wilder: la sua fetta di Stalag 17 era praticamente zero, o quasi. Il motivo? La Paramount, visto l’insuccesso de L’asso nella manica, pensò bene di risarcirsi con una parte degli incassi che gli sarebbero spettati di diritto. Il risultato? Le strade di Wilder e la Paramount si separarono pochi mesi dopo la distribuzione in sala di Stalag 17. Il suo contratto era in scadenza e scelse di non sedersi mai al tavolo delle trattative.
Uno scetticismo incomprensibile quello della Paramount. Specie considerando il recente passato glorioso di Stalag 17. Prima ancora che sofisticata opera cinematografica wilderiana infatti fu un’opera teatrale ideata da Donald Bevan ed Edmund Trzcinski (che nel film di Wilder appare in un breve cameo) basata sull’esperienza da prigionieri di guerra nel 1943 allo Stalag 17B in Austria. A Broadway farà furore. Presentata all’Edwin Burke Memorial Theatre del The Lambs l’11 marzo 1951, vedrà oltre 470 repliche negli anni successivi. Tanto fu incredibile la loro storia che Bevan, distintosi durante la Seconda Guerra Mondiale come leggendario mitragliere di coda B-17 abbattuto (purtroppo) nei cieli tedeschi durante un conflitto aereo, fu l’ispirazione eccellente dietro al personaggio del Sergente McIlhenny (Robert Arthur) in Cielo di fuoco di Henry King del 1949.
Al centro della scena di Stalag 17 – e la locandina in questo non mente – un formidabile e istrionico William Holden di nuovo in coppia con Wilder dopo l’iconico Joe Gillis e la sua oramai leggendaria digressione temporale dall’oltretomba di Viale del tramonto che vide nel Sergente J.J. Sefton l’apogeo artistico con la vittoria agli Oscar 1954 dell’ambita statuetta di Miglior attore protagonista la notte del 25 marzo per cui passò alla storia formulando il discorso di ringraziamento più breve della storia dell’Academy: «Grazie a tutti». Il motivo? Era doppiamente deluso per il risultato ottenuto. Sia perché, a suo dire, i Burt Lancaster e Montgomery Clift de Da qui all’eternità erano ben più meritevoli di lui dell’Oscar, sia perché vide nel premio una sorta di risarcimento per quello appena sfiorato per Viale del tramonto (poi assegnato a José Ferrer per Cirano di Bergerac).
Certo, ci mise tutto sé stesso: si fece tagliare i capelli a spazzola, lasciò la barba incolta, e rimase talmente nel ruolo di Sefton da non gradire gli scherzi da caserma di altri membri del cast, specie i primi tempi sul set di Stalag 17. Ma non lo amò mai, non lo sentì suo. Fu la terza scelta per la parte dopo Charlton Heston – per cui il ruolo di Sefron fu espressamente scritto (e che non apprezzò la scelta caratteriale del renderlo poco eroico, ambiguo) – e Kirk Douglas che declinò l’offerta di Wilder e Paramount per poi pentirsene amaramente arrivando a definirlo come: «Il peggior sbaglio di tutta la mia carriera». Infine Holden che, proprio come Heston, riteneva la caratterizzazione di Sefton troppo egoista e marcatamente cinico, ma al punto che, invitato a vedere Stalag 17 a Broadway, scelse di andarsene alla fine del primo atto.
Chiese così a Wilder di riscrivere il personaggio in modo da manipolarne le inerzie caratteriali così da renderlo più gentile. Wilder rifiutò. Lo stesso fece Holden che preferì, a quel punto – e in cuor suo è questo quel che fece – rinunciare alla parte. A conti fatti Stalag 17 non riusciva a trovare un interprete in grado di accogliere a braccia aperte la caratterizzazione del suo (anti-)eroe protagonista. Quello che Holden scoprì a caro prezzo, era che, per via dell’accordo stipulato con la Paramount, non aveva praticamente alcuna voce in capitolo sulla dimensione caratteriale di Sefton (per quella chiedere a Wilder), trovandosi così costretto ad accettare il ruolo suo malgrado. Il primo giorno di set infatti, per far capire un po’ che aria tirava, Wilder consegnò agli attori i copioni che gli sarebbero stati restituiti, a fine giornata, senza alcuna modifica da parte loro.
Si rivolse, in particolare, ad Holden che insistette – nonostante tutto – affinché Sefton venisse addolcito e reso più simpatico e al regista Otto Preminger, qui nei panni del Colonnello von Scherbach dalla dimensione caratteriale fortemente rievocativa dell’immenso Erich von Stroheim/Capitano von Rauffenstein de La grande illusione di Jean Renoir del 1937, che come ogni grande regista adorava comandare. Era sua abitudine urlare agli attori e lo faceva in soli due casi: se fossero stati in ritardo sul set e se avessero dimenticato le battute. Come semplice attore (grandioso) sul set di Stalag 17 disse a Wilder all’inizio della lavorazione che se avesse dimenticato anche solo una battuta gli avrebbe regalato un barattolo di caviale. In seguito Wilder rivelò in un’intervista che ricevette due dozzine di vasetti del genere dal collega Preminger.
Su una cosa era contrario però il regista di Anatomia di un omicidio (di cui potete leggere qui), non addolcire Sefton. Diede infatti manforte allo stoico Holden sostenendolo nella causa caratteriale. Il risultato? Riuscirono nei loro intenti ma soltanto in una piccola (ma preziosa) misura: è merito di Preminger e Holden se nello speranzoso climax di Stalag 17 l’odioso ma giusto Sefton sfoggerà il suo sorriso salutando i suoi compagni di prigionia prima di infilarsi nuovamente nella buca e correre verso la libertà. Inizialmente quest’ultimo gesto non sarebbe dovuto esserci. Nel girare la scena Wilder si rese conto che Holden aveva ragione e che quella partenza brusca con tanto di – «Semmai dovessi imbattermi in qualcuno di voi barboni all’angolo della strada facciamo finta di non esserci mai incontrati» – fosse anticlimatica, priva di una reale evoluzione caratteriale. La ebbe vinta Holden alla fine, fortunatamente.
Principale ispirazione per il serial Gli eroi di Hogan del 1965 prodotto da CBS con Bob Crane come stella assoluta che causò un incidente diplomatico con la Paramount, Wilder, e gli autori Bevan e Trzcinski che, a loro volta, accusarono gli ideatori Albert S. Ruddy e Bernard Fein di plagio (finirono in tribunale, se la cavarono con una transazione dall’esito patrimoniale sconosciuto), è inutile sottolineare ulteriormente del peso specifico straripante di un’opera come Stalag 17, specie nell’irripetibile amalgama di scrittura tra la delicata commedia brillante e l’insita brutalità drammatica di un campo di concentramento nazista. C’è un’ultima storia però che finisce con il cementificare la grandezza di Stalag 17. È quella dell’allora trentacinquenne William LaChasse assunto dalla Paramount dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per partecipare a diversi film bellici in piccoli ruoli.
LaChasse fu iscritto alla SAG – Screen Actors Guild e per ogni film, compreso Stalag 17, riceveva una manciata di battute da recitare. Del resto all’epoca non esisteva ancora la SEG – Screen Extras Guild (poi comunque dissoltasi nel 1994 e assorbita dalla più attiva SAG) per le comparse. Perché assumerlo allora? Semplice, era il modo più economico per utilizzarlo come assistente scenografo. In realtà, per fortuna della Paramount, LaChasse si scoprì essere molto più che questo. Era un eroe di guerra. Un aviatore, pilota di B-17, abbattuto da Otto Peter Stammberger a bordo del suo Messerschmitt Fighter, a seguito del quale LaChasse fu fatto prigioniero per quasi tre anni in territorio nemico (Stalag Luft 3 a Sagan-Silesia, Bavaria). La sua presenza risultò essenziale per la credibilità del set di Stalag 17, dai suoi ricordi dipese la veridicità dell’intero progetto.
Il risultato? Divenne collaboratore strettissimo di Wilder che dal momento in cui capì chi era, veramente, LaChasse, superò i malumori produttivi lavorando con sempre più maggiore entusiasmo. Questo si tradusse in immagine. I giornalieri che venivano consegnati, ogni sera, agli executives della Paramount piacquero talmente da dargli carta bianca per qualsiasi scelta registico-artistica da lì in poi. Di LaChasse si perderanno poi le tracce tanto da considerare ad oggi Stalag 17 la sua unica, vera, partecipazione ufficiale a una produzione hollywoodiana. Wilder ricomincerà a macinare cinema tra Sabrina e Quando la moglie è in vacanza ponendo i sigilli – tra Testimone d’accusa (di cui potete leggere qui) e A qualcuno piace caldo – di un decennio clamoroso che lo vedrà autentico mattatore della Hollywood di qualità eccelsa.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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