MILANO – All’indomani del tiepido successo di Hook – Capitan Uncino – ampiamente rivalutato poi nei suoi intenti di rilettura postmoderna – per Steven Spielberg giunse il momento della definitiva consacrazione. L’apice di un’inarrestabile ascesa avuta inizio negli anni ottanta e che nel 1993 vide il cineasta dar vita a due opere che gli varranno l’immortalità artistica: Jurassic Park e Schindler’s List. Ovvero l’anima giocosa e visionaria e quella taumaturgica ed emotiva del cinema di Spielberg. Dicevamo, gli anni Ottanta, formidabile decade che per Spielberg ha rappresentato un concatenamento di produzioni che tra Indiana Jones e la codifica della grammatica filmica del cinema teen (E.T., I Goonies, Gremlins), gli permisero d’imporsi come costruttore di immaginari, ma senza dimenticare la deriva più matura e di impegno (Il colore viola, L’impero del sole), pellicole a cui Spielberg si avvicinerà con un certo timore ma che risulteranno invece funzionali nella sua formazione nonché anticipatori del respiro filmico che avrà Schindler’s List.
Eppure nonostante non si sbagli nel definirlo il capolavoro del suo opus filmico, ironia della sorte, in origine Spielberg avrebbe dovuto figurare come produttore. Non si sentiva all’altezza di un simile impegno. Di tutt’altra opinione il produttore, Syd Sheinberg, che credeva così tanto in lui dall’acquistare i diritti del romanzo di Thomas Keneally nel 1982 (poi sceneggiato da Steven Zaillian) in previsione di una futura realizzazione. E ci vide benissimo. Del resto i sette Oscar (tra cui film e regia) a fronte di ben 12 nomination nel 1994 la dicono lunga sulla lungimiranza di Sheinberg. Eppure quando ad Hollywood si iniziò a parlare di Schindler’s List, il primo nome che si fece per la regia era quello di Roman Polanski. Per Spielberg era lui l’uomo giusto. Alla lettura dello script però Polanski vi rimase così coinvolto dal dovervi rinunciare. Per lui avrebbe significato rivivere l’infanzia, visto che a otto anni fu costretto a fuggire da Cracovia il giorno della liquidazione del Ghetto (13 marzo 1943). Un rifiuto figlio di un dolore che il regista polacco saprà esorcizzare soltanto dieci anni dopo con Il pianista, a suo dire più leggero (e meno personale).
Altri nomi papabili erano quelli di Martin Scorsese, Billy Wilder, nonché Sidney Lumet. Senza altri candidati Spielberg finì con l’essere l’unica scelta possibile per dare vita alla lista di Schindler. Nell’accettare di dirigerlo però, oltre a scegliere di devolvere la totalità del compenso e della percentuale degli incassi (più di 320 milioni di dollari a livello globale) alla Shoah Foundation, mise in chiaro una condizione: prima Jurassic Park, poi Schindler’s List. Temeva l’esperienza sul set. Sentiva che a post-produzione ultimata si sarebbe sentito prosciugato. Non a caso prima di rivederlo in regia passeranno quattro anni con un’altra accoppiata: Il mondo perduto: Jurassic Park, e Amistad. Nonostante il diktat però le lavorazioni finirono con il sovrapporsi nella post-produzione. Spielberg si ritrovò così a curare la color correction di Schindler’s List e il sound mixing di Jurassic Park nell’arco della stessa giornata. Un’esperienza che lui stesso arriverà a definire bipolare: «Ogni grammo di intuizione su Schindler’s List. Ogni grammo di mestiere su Jurassic Park».
E come prevedibile fu prosciugante. Spielberg è ebreo e Schindler’s List lo costrinse a confrontarsi con l’antisemitismo di cui fu vittima in gioventù. Concepito in lingua originale (ebraico e tedesco con sottotitoli in inglese), proprio per il taglio registico scelto Spielberg si sentiva più reporter che regista. Influenzato infatti dal documentario Shoah di Claude Lanzmann del 1985, il regista escluse del tutto dalla lavorazione l’utilizzo di storyboard per lavorare più di spontaneità filmica. Il risultato fu che molte delle sequenze più forti furono dirette dalle seconde unità Marek Brodzki e Krzystof Zbieranek perché Spielberg era emotivamente impossibilitato a farlo. Per risollevare l’animo e ritrovare la concentrazione alla fine di ogni giornata di lavorazione Spielberg trovava conforto in una lunga telefonata con Robin Williams tra gag e la lettura copione di Aladdin, e nelle puntate della sit-com Seinfeld. Particolare quest’ultimo che il suo ideatore – Larry David – omaggerà a suo modo nella diciottesima puntata della quinta stagione: The Raincoats.
Nonostante rimanga impresso il delicato bianco e nero del DoP Janusz Kaminski, Schindler’s List vive di specifici momenti in apertura e chiusura di racconto in cui Spielberg lascia intravedere spiragli di luce e colore. Decisione che non fu accolta con entusiasmo dai dirigenti della Universal. In particolare Tom Pollock fece pressioni affinché lo si girasse interamente a colori. Spielberg si oppose: «L’Olocausto fu vita senza luce. Per me il simbolo della vita è il colore. Per questo un film che parla dell’Olocausto deve essere in bianco e nero». La scelta del bianco e nero risponde quindi alla specifica scelta di sottolineare l’effettiva privazione della vita e lo spazzamento delle radici e delle tradizioni da parte della Soluzione finale della questione ebraica attraverso la composizione d’immagine. Nello specifico nel rituale dello Shabbat celebrato in una sala da pranzo. Un stanza dalla luce fioca e mattutina dove il fumo di una candela spenta priva Schindler’s List del colore trovando forza narrativa in un prodigioso match-cut con la ciminiera di un forno crematorio che è codifica veloce dell’intera ratio filmica del racconto e delle gemme del sottotesto. Una scelta in apertura di racconto che Spielberg stesso ebbe a definire come «La quiete prima della tempesta che travolse gli ebrei».
Se chiedete a qualsiasi spettatore la prima cosa che viene in mente pensando a Schindler’s List la risposta è solo una: la bambina con il cappottino rosso (Olivia Dabrowka). All’epoca aveva tre anni e Spielberg ebbe con lei un atteggiamento protettivo non dissimile da quanto fece Stanley Kubrick con Danny Lloyd in Shining. Fingendo che fosse un gioco (e in fondo il cinema lo è per davvero), a lavorazione conclusa invitò la Dabrowka a vedere il film solo raggiunta la maggiore età. Lei, come tutti i bambini, disubbidì e a undici anni vide Schindler’s List rimanendo molto scossa (vi abbiamo raccontato la sua storia qui). Quello della bambina con il cappottino rosso è quello che Alfred Hitchcock avrebbe definito un MacGuffin. Nello specifico un MacGuffin citazionista rievocante il fumo rossastro di Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa (che a sua volta omaggiava la politicizzata bandiera rossa de La corazzata Potemkin di Eisenstein). Ma se in Kurosawa l’espediente fungeva da suggerimento su dove focalizzare lo sguardo, con Spielberg diventa distrazione politica (e quindi più vicina all’opera di Eisenstein). L’occhio umano, reso sapientemente da una falsa soggettiva su Schindler (Liam Neeson), segue la bambina lungo le strade della Cracovia liquidata tra fucilazioni, deportazioni e oggetti lanciati dalla finestra.
La sequenza risulta necessaria sia in termini drammaturgici per gettare le basi della trasformazione benevola di Schindler, che simbolici. La scelta di una bambina con il cappottino rosso non era infatti del tutto casuale. Anni dopo Spielberg spiegò come indicasse quanti, all’epoca, sapessero dei massacri perpetuati verso gli ebrei, ma non fecero nulla per impedirlo: «Era evidente come una bambina con un cappotto rosso che cammina per strada. […] Nulla fu fatto per fermare l’annientamento degli ebrei europei. Quindi questo è il mio messaggio nel lasciare quel particolare del film a colori». La suggestione di raccontare dell’Olocausto e dei suoi orrori dall’atipico punto di vista narrativo di Oskar Schindler risultava il perfetto incontro narrativo tra tradizione e innovazione. Kubrick, che dopo aver visto Schindler’s List rinunciò alla realizzazione del suo Aryan Papers, affermò come il focus del racconto non fosse l’Olocausto ma il successo di una missione: «L’Olocausto riguarda 6 milione di persone uccise, Schindler’s List di 600 persone che non lo sono state».
E uno dei (molti) punti di forza di Schindler’s List c’è proprio l’arco di trasformazione del suo anti-eroe. Un capitalista, Schindler. Un uomo che è parte del problema tedesco. Che vorrebbe lucrare sugli effetti collaterali del conflitto ma che finisce con il diventarne parte della soluzione. Un’evoluzione caratteriale dapprima rifiutata, rinnegata, infine accettata. Dallo sviluppo calcolato nel ritmo ma potenziato nelle intenzioni sceniche, metodicamente gestito da una narrazione il cui struggente climax da contrappasso finisce con il sigillarne gli intenti tra un brano del Talmud e un abbraccio dal calore che travalica i confini dello schermo per cristallizzarsi nella memoria comune. Proprio per la sua atipicità però il rischio che Schindler’s List non fosse all’altezza degli intenti di una tale mole narrativa era altissimo.
La grandezza dell’opera di Spielberg non sta tanto nell’approccio documentaristico con cui l’autore declina il suo occhio e nemmeno nell’evoluzione della connotazione scenica della Lista da simulacro di dolore e morte, a speranza e pace. Piuttosto nella gestione delle componenti sceniche. Una codifica d’immagini filmiche senza filtri, crude e realistiche, volte a mostrarci le molteplici violenze perpetuate agli ebrei, la vita nei campi di concentramento, l’evoluzione di Schindler tra il benevolo Ster (Ben Kingsley – la coscienza del racconto) e il malevolo Goeth (Ralph Fiennes – la nemesi in una dicotomia bene/male già di suo molto sfumata). Una amalgama di elementi finisce con il rendere Schindler’s List un organo vivente popolato di voci vibranti e pulsanti che dallo sfondo del passato gridano dinanzi all’orrore e salvano il mondo riportandovi colore e gioia.
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