MILANO – «Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani…». Era il 27 maggio 1995 quando a Cannes, in concorso, venne presentato il secondo film di un ragazzo di ventotto anni che (quasi) nessuno conosceva. Il suo nome? Mathieu Kassovitz, parigino figlio d’arte di un regista (Peter Kassovitz) e di una montatrice (Chantal Rémy), un solo film girato alle spalle (Meticcio) e un futuro ancora tutto da scrivere. Arrivò sulla Croisette per presentare L’Odio assieme al cast, tre ragazzi impacciati non ancora abituati a red carpet e interviste. Erano Vincent Cassel (figlio di Jean-Pierre Cassel), Saïd Taghmaoui e Hubert Koundé. Basta guardarli qui sotto – in fondo all’articolo – intervistati da Nicole Cornuz-Langlois, per capire quanto quei tre non fossero a loro agio tra yacht, vestiti eleganti e convenevoli.
Kassovitz se ne andò poi da Cannes con la Palma d’oro vinta come miglior regista e il film divenne immediatamente un caso, arrivando in Italia qualche mese dopo, il 21 settembre. Rivedere oggi L’odio, a ventotto anni di distanza fa quasi paura perché in quel film già c’era dentro tutto: dall’apertura su Bob Marley con le parole di Burnin’ and Lootin’ («This morning I woke up in a curfew») alle pose di Cassel à la Travis Bickle in Taxi Driver, e poi il fuoco delle banlieue, le violenze della polizia, la società multietnica e quel mantra che continua a girare per tutto il film e che paradossalmente risuona oggi più potente che mai: «Il problema non è la caduta ma l’atterraggio».
E allora? Cosa (ci) racconta oggi L’odio? Racconta – e continua a raccontare, ancora e ancora – proprio di quella caduta, una caduta lunga tre decenni che ancora non vede fine, che ancora non sa quando arriverà l’atterraggio, che ancora può finire peggio di come sembrava. «È la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio», dice Hubert, interpretato da Hubert Koundé – che oggi ha cinquant’anni e vive tra la Francia e il suo Benin – prima di aggiungere: «L’odio chiama l’odio». Quando vedemmo L’odio allora, nell’autunno del 1995, seduti in un cinema di provincia per riuscire a capire cosa davvero fosse quel film in bianco e nero che aveva sconvolto la Francia, i tre amici Vinz, Hubert e Saïd ci sembravano appartenere a un mondo lontano, piuttosto distante dalla nostra vita quotidiana.
Non avevamo ancora capito che – tra le molte cose – il grande cinema ha la capacità di contenere il futuro, di leggere la realtà di oggi per proiettarla sul domani e farci capire cosa arriverà. Per questo oggi L’odio è – non incredibilmente – ancora ovunque, sui muri di Saint Denis e sui tatuaggi, nell’estetica di certo hip hop e nelle manifestazioni di piazza, nel linguaggio, sulle magliette e nelle canzoni. «Jusqu’ici tout va bien». Ma poi cos’è successo in questi ventinove anni? Cassel è diventato un divo assoluto tra il Brasile e Parigi, Koundé – come detto – qualche volta recita ancora, Saïd Taghmaoui è diventato un caratterista molto richiesto a Hollywood (era in Wonder Woman e in John Wick 3), mentre Kassovitz, dopo aver fatto innamorare perfino Amélie Poulain, ha girato molti film, ma non ha mai mantenuto le promesse de L’odio.
Forse era impossibile, forse è stata una condanna girare il suo capolavoro a inizio carriera. Chi lo sa. Rimane il fatto che – proprio come in Fà la cosa giusta – ne L’odio – disponibile su Rarovideo Channel che trovate sia su Prime Video che su The Film Club – c’era già dentro tutto, da Adama Traoré a George Floyd, da Trayvon Martin a Breonna Taylor, fino al povero Tyre Nichols, nomi e tappe di una caduta che da quel maggio 1995 continua inarrestabile. E non sembra vedere (e volere) fine. «Le problème ce n’est pas la chute, c’est l’atterrissage…».
- HOT CORN TV | Intervista a Mathieu Kassovitz
- VIDEO | Qui l’intervista a Cannes nel 1995:
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