ROMA – Vivace, colorato, nonché – a conti fatti, trent’anni dopo – forse la più pura espressione del postmodernismo hollywoodiano. La sola e semplice idea di un sequel live action della fiaba di Peter Pan di J.M. Barrie, rievocante nella costruzione d’immagine la declinazione disneyana de Le avventure di Peter Pan per semplificazione produttiva e paradigma culturale di riferimento, ha infatti qualcosa di prodigioso ancora oggi a distanza di molto tempo. Un incontro di immaginari fiabeschi, animati e cinematografici resi in forma filmica da chi – degli anni Ottanta – è stato indiscusso mattatore e pioniere: Steven Spielberg. Eppure non si può dire che la vita artistica di Hook – Capitan Uncino sia stata delle più semplici, anzi.
Dopo la presentazione al mondo a Los Angeles l’8 dicembre 1991, lo stesso Spielberg si è sempre detto incredibilmente deluso del risultato ottenuto: «Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua mentre giravo Hook. Non sapevo esattamente cosa stavo facendo e ho cercato di mascherare la mia insicurezza con i valori della produzione: più mi sentivo insicuro, più grandi e colorati diventavano i set…». Ma facciamo un passo indietro. La prima volta che sentiamo parlare di Hook è addirittura nel 1983. Spielberg, anche per rendere ancora più esplicito il legame con il precedente della Disney, lo aveva immaginato come un musical. Al centro del progetto? Michael Jackson in ascesa definitiva dopo i successi mondiali di Thriller e Say Say Say (in coppia con Paul McCartney) che del mito di Peter Pan era sempre stato stregato e che di Hook – manco a dirlo – avrebbe curato la colonna sonora.
Un idillio artistico che tuttavia ebbe vita breve. Anche per via dell’amicizia che li legava, infatti, Jackson era convinto che il regista avrebbe automaticamente assegnato a lui la parte di Pan. Al provino, però, Jackson convinse molto poco uno Spielberg che, non trovando l’interprete adatto – e preferendosi concentrare sulla pre-produzione di Indiana Jones e il Tempio Maledetto – scelse di accantonare temporaneamente Hook e rimetterci mano con la dovuta calma. La cosa fu però interpretata malamente da Jackson che lo vide come un affronto personalem tanto che di lì in avanti i rapporti tra i due si raffreddarono, e di molto.
Sul finire degli anni Ottanta – e dopo aver incasellato una serie di successi niente male tra Il colore viola, L’impero del sole, Indiana Jones e l’Ultima Crociata e il sempre troppo poco citato Always, Spielberg decise che era finalmente arrivato il momento giusto per dar vita a Hook, sebbene non più nella forma filmica del musical ma in altro modo. Questa volta sarebbe stato un live action per cui, in origine, aveva immaginato l’irresistibile Kevin Kline – che tra Il Grande Freddo (qui per il nostro Longform) e Un pesce di nome Wanda stava vivendo un periodo magico culminato nel 1989 con l’Oscar al Miglior attore non protagonista – come volto e corpo di Peter Pan. Un azzardo? Forse.
Il perdurare delle riprese di Bolle di sapone, però, costrinse Kline a rinunciare alla parte. Al suo posto ecco invece Robin Williams con cui nacque un’amicizia sincera e salvifica, per entrambi. Basti pensare come, a cavallo tra la post-produzione di Jurassic Park e la lavorazione di Schindler’s List (qui per il nostro Longform), Williams divenne il giullare telefonico di Spielberg: ogni sera una chiacchierata di mezz’ora con cui risollevargli l’animo tra aneddoti, battute, commenti vari sulla puntata del giorno della sit-com Seinfeld (il fenomeno del momento negli Stati Uniti) e la lettura del copione di Aladdin per cui Williams nella versione originale prestò la voce al Genio.
L’esperienza sul set di Hook fu, in ogni caso, una dura prova per Spielberg. Nonostante non fosse a digiuno nella direzione di bambini tra E.T. – L’extra-terrestre (qui per il nostro Longform) e il giovane-e-intenso Christian Bale de L’impero del sole, i Bimbi sperduti furono talmente frustranti da dirigere da fargli perfino rivalutare il ruolo di genitore. In ogni caso si respirava un’atmosfera serena. Dustin Hoffman – che ebbe la meglio su Donald Sutherland per il ruolo di Capitan Uncino – si dilettava con Williams in meravigliose battaglie di ingegno attoriale ad ogni ciak. Le stesse – seppur ad inerzia invertita – che lo stesso Hoffman ebbe da giovane con il titanico Laurence Olivier sul set de Il maratoneta.
Chi invece proprio non riuscì a godersi Hook fu Julia Roberts che tra la solitudine da schermo verde per dar vita a Trilly (per cui sembra che Carrie Fisher ne inspessì i contorni caratteriali in una riscrittura non accreditata dello script), e l’annullamento del matrimonio con Kiefer Sutherland, fuggì dal set, ebbe un esaurimento nervoso, e regalò più di qualche grattacapo a Spielberg. Eppure fu un progetto voluto e ricercato da tantissimi al tempo. A detta dell’autore dello script James V. Hart (Dracula di Bram Stoker, Contact) tutti negli anni Ottanta a Hollywood avrebbero voluto rielaborare la figura di Peter Pan in chiave contemporanea. In particolare Francis Ford Coppola e John Hughes che si mostrarono da subito stregati all’idea (per poi consolarsi tra Rusty Il selvaggio e The Breakfast Club).
Facciamo un altro passo indietro. Perché come spesso capitato nella storia del cinema, è solo per puro caso che oggi siamo qui a raccontare di Hook è del suo prezioso retaggio trentennale. L’idea del concept venne a suo figlio Jake che, dopo aver fatto vedere al padre un’illustrazione della fiaba originale raffigurante la (presunta) morte di Capitan Uncino, commentò con la tipica ingenua fanciullezza dei bimbi: «Questo è Uncino che viene mangiato dal coccodrillo. Ma non viene ucciso sul serio, lui scappa». L’idea restò incastonata nella mente di Hart che ne immaginò da subito la prosecuzione fisiologica: «E se Peter Pan diventasse grande?». Prodotto da TriStar Pictures, per circa un anno Hart collaborò con Nick Castle – lo stesso de Halloween – La notte delle streghe (qui per il nostro Longform) – lavorò alla stesura dello script.
Questo finché nel 1983 Spielberg e la sua Amblin non entrarono in scena scombinando un po’ le carte. Per quanto affascinato dalla gioiosa idea alla base di Hook, non è che Spielberg andasse proprio matto per lo script di Hart: «Non avevo fiducia nella sceneggiatura. Avevo fiducia nel primo atto e nell’epilogo. Non avevo fiducia nel suo corpo centrale». Un qualcosa che effettivamente traspare tra le maglie filmiche del racconto. Spielberg ci mette ingegno e quel qualcosa di suo che negli anni gli ha valso l’etichetta di regista veloce. È arguto nel taumaturgico espediente di teatro-nel-teatro in apertura di racconto. O nel giocare, lungo tutto il primo atto, di chiaroscuri caratteriali in quell’enigmatico detto/non detto nel determinare la reale identità dell’agente scenico di Williams gettando, al contempo, le basi del conflitto di chiara matrice fantastico-familiare.
Dal momento in cui Peter sveste i panni di freddo workaholic per riabbracciare la propria essenza sperduta da Pan però – lungo tutto il secondo atto insomma – Hook cambia marcia, perde ritmo, fino ad ingolfarsi in un andamento narrativo innaturale. Perde spontaneità insomma. La stessa che abbaglia e meraviglia lo spettatore nella citazionistica costruzione d’immagine disneyana o nell’impostare il racconto secondo il registro filmico tipico del Classico. Lungo il dispiego dell’intreccio però, questa va progressivamente a depauperarsi fino a un climax in cui Hook riesce a regalare un autentico colpo di coda di pura magia filmica che è liberazione dell’Isola che non c’è, rinsaldamento della dimensione familiare inizialmente disequilibrata, e riscoperta per il Peter adulto del proprio io fanciullesco/Pan in un mondo di rampanti yuppies.
Nonostante il rapporto di amore/odio del suo autore però Hook sarà tra i protagonisti di quella stagione cinematografica con i suoi 300 milioni di dollari world-wide al box-office (il quarto più alto del 1991) e ben cinque nomination agli Oscar 1992. A quell’edizione prenderà parte anche Robin Williams che per la performance strepitosa ne La leggenda del Re Pescatore di Terry Gilliam verrà candidato nella categoria Miglior attore protagonista. Nello stesso anno Spielberg affronterà il secondo turning point della sua incredibile carriera. Quella doppia-e-iconica sfida simultanea Jurassic Park/Schindler’s List che gli varrà l’immortalità artistica e il ricordo – un domani – negli annali.
Per Hook resta solido ad oggi lo status di pietra miliare. Pura gemma di sperimentazione postmoderna figlia di un residuale spirito artistico new-hollywoodiano. Un’opera unica, di quelle che per qualunque altro autore sarebbe senz’altro rilevante, ma che nell’opus spielberghiano non è altro che l’ennesima (minore) conferma del suo fantasioso (e fantastico) talento eclettico…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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