CANNES – Caro Diario, finalmente anche noi abbiamo ricevuto in invito. Uno vero. Dal festival. Sì, quello di Cannes. Guardiamo quello che sembra un dozzinale pezzo di carta bianca, senza busta né orpelli, e ci sembra di avere in mano il biglietto de La fabbrica di cioccolato. Rileggiamo ogni parola, sia nella versione inglese che in quella francese, per essere sicuri che sì, ci lasceranno accedere nella dimora deputata al pranzo con il sindaco della città. E qui – ricordando la magra cena allo yacht – ci luccicano gli occhi come in un anime giapponese perché già immaginiamo cosa ci aspetterà: noi, la giuria al completo, fiumi di champagne, goodie bag, pietanze luculliane e foto da tramandare ai nipotini.
Per giorni e giorni l’elenco dei dettagli sulla wish list si è allungato fino addirittura a prefigurarci l’abbraccio affettuoso di Kristen Stewart. Lo so, ci siamo spinti un po’ oltre, ma sognare non costa nulla, e pare sia ancora gratis anche qui sulla Croisette. Arriva finalmente la data tanto attesa: arriviamo con discreto anticipo e ci accolgono tante signore in fila, di quelle con le gote rosse nelle taverne scozzesi, con boccali traboccanti di birra e generosa scollatura. Forse si vestono in costume d’epoca per hobby o vocazione. Non lo scopriremo mai. Alcune più giovani battono le mani su un tamburello a suon di musica. Folklore.
No, non c’è Bob Sinclar alla consolle, com’è successo durante la cena finale di gala allo scorso Festival della Tv di Monte-Carlo alla presenza del Principe Alberto II di Monaco, ma non abbattiamoci, il bello deve ancora arrivare. E poi Sinclar è superato. Ci aspettiamo hostess dall’aria botticelliana ma vediamo in giro solo camerieri alla Botero, che sballonzolano le portate su un vassoio. Caviale? Foie gras? Macché: quando aprono il coperchio fumante delle pietanze spunta un merluzzino. Lesso.
Forse è per chi ha problemi di stomaco o intolleranze alimentari o in fase post-operatoria. Aguzziamo la vista e l’ingegno per scoprire dove si celi il vero buffet, per gli altri, quelli che hanno subito deprivazioni alimentari e file sotto le intemperie. Cioè noi. Niente. Solo qualche pallida focaccia-pizza scondita, con vino sconosciuto. Mangiamo mestamente pensando che di sicuro uno chef stellato ha progettato il menù per la stampa internazionale e avrà pensato di stupirci con effetti speciali. Beh, ci è riuscito. Più di quanto non abbia fatto Ron Howard con Solo.
Solo l’arrivo della giuria potrà risollevare le sorti. Passa il tempo e finalmente appare in tutta la sua solenne grazia. Cate Blanchett e compagni si fermano. Lontano da noi, dai comuni mortali in tavolate di legno della Pasquetta operaia. Ci sbracciamo tra la folla per scoprirne il motivo. Semplice: c’è un cordone-barriera che divide gli dei dell’Olimpo da noi tutti. A dieci passi dallo sbarramento un energumeno dalla stazza di The Rock ci guarda in cagnesco. Dietro front.
Ci avviamo verso l’uscita e vorremmo buttarci a terra ed essere trascinati via come Tristezza in Inside Out. Ma racimoliamo ogni briciolo di dignità rimasta e, come dice John Travolta in versione mafioso a suo figlio in Gotti, «a testa alta ci allontaniamo». Ma c’è tempo per l’ultima illusione: un tavolo pieno di shopper. Verremo ripagati della fatica festivaliera con cadeaux di classe, come solo i francesi sanno fare. Sbirciamo nella borsa, da cui spunta una bottiglia di olio locale, taglia piccola ma non abbastanza da entrare nel bagaglio da cabina. Rimarrà qui, sulla Croisette. Così mandiamo un messaggio vocale allo zio per dirgli quanto ci mancano le olive salentine. Loro sì non tradiscono mai. Ah, catch me if you Cannes!
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