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Caro Diario #7: Cosa fare a Cannes quando sei affamato

No, non si vive di solo cinema, anzi. Il problema è che mangiare sulla Croisette è proprio un problema

CANNES – Caro diario, archiviata la breve (ma intensa) parentesi fantozziana in barca che potete leggere qui, torniamo sulla terra (ferma) ad occuparci di situazioni meno glamour e decisamente più prosaiche: come procacciarsi il cibo sulla Croisette. Lo sappiamo, ci sono state 82 artiste in marcia sul red carpet per far sentire la voce delle donne mentre noi siamo qui a pensare al croissant. Maria Antonietta scuoterebbe subito la testa, se ce l’avesse ancora e se fosse qui tra noi al Festival (Je sui désolé, mais non). Diciamolo subito: nei paraggi non esiste una versione dello “zozzone”, dicesi camioncino salva-vita fuori dai concerti (presente quelli del panino con cotoletta oppure dei wurstel rigirati nell’olio di motore di un Ducato?) in cui rifugiarsi per un meritato ristoro.

Nel frattempo, lo “zozzone” aspetta clienti…

Abbiamo provato ad introdurre di nascosto nel Palais un pacco di salatini e siamo stati pubblicamente svergognati. Non resta che il digiuno, in fila. Quando però ogni speranza sembra ormai vana si palesa un fotografo italiano che, con fare da novello Cristoforo Colombo, annuncia in maniera cospiratoria di aver scoperto dell’esistenza di una mensa. Immaginiamo già una terrazza con arredamento minimal-chic, dialoghi colti e stampe autografate da Truffaut. Sbagliato: come tutte le meraviglie del festival, questa perla si trova nascosta in angoli remoti. Talmente remoti che solo da alcuni selezionati accessori è consentito l’accesso. Talmente remoti da doversi infilare in cunicoli bui tra scale e montacarichi, prima di vedere una porticina seminascosta. E da lì si accede ad un ambiente con un’atmosfera post-apocalittica. Alla The Handmaid’s Hale.

“Il sapore è buono. Pensavamo peggio”

Le pareti sono spoglie, le luci soffuse, i soffitti bassi. È la caffetteria dei dipendenti del Palais e il messaggio sembra piuttosto chiaro: «Mangia in fretta e torna al lavoro». Con aria sperduta ci guardiamo intorno e, tra un elettricista e una hostess, spuntano guardie armate di fucili che presidiano il tetto dell’edificio. Proviamo ad indietreggiare prima di essere notati. Troppo tardi. Un omino spunta da dietro al bancone con l’aria di Mangiafuoco e non ci resta altra scelta se non quella di avanzare. Cerchiamo di ricordare i movimenti dei buttafuori, che comunicano continuamente ordini all’auricolare come se stessero eseguendo un protocollo CIA.

Quando capisci che con la security non ce la puoi fare.

I prezzi sono modici (se si esclude McDonald’s) e ci lanciamo nella scelta, decidendo di lanciarci nel menù completo – primo, secondo, contorno e persino dolce e bevanda – roba che nemmeno Meghan Markle a Buckingham. Accanto a noi spunta all’improvviso una creatura mitologica: il possessore del super esclusivo badge bianco. Praticamente come scorgere un Bigfoot su un unicorno. Guardiamo la foggia di questo oggetto, dall’aspetto ordinario ma dal potere superiore. Come l’anello di Gollum. Il badge bianco. Il. Badge. Bianco. Vorremmo accarezzarlo, sfiorarlo, adorarlo, amarlo perché è il vero oggetto del desiderio di ogni giornalista.

«Il badge bianco. Quindi esiste…».

Ci riprendiamo (a fatica), ancora abbagliati da quel biancore, ma la matrona in questione non ci degna di uno sguardo. Sarà in pensione da vent’anni, ma la direzione ha specificato che i veterani del badge bianco sono come i senatori a vita: possono andare in pensione ma conservano qualsiasi status, compresi all areas e priority. Nel sistema delle caste festivaliere noi di Hot Corn, blu, siamo al penultimo scalino della gerarchia, prima dei gialli. Ancora non abbiamo capito se è consentito il dialogo tra stirpe reale e comuni mortali: se fossimo in Downton Abbey saremmo alloggiati con la servitù, se viaggiassimo sul Titanic ci spetterebbe una cabina di terza classe. Ma con DiCaprio. Tiè.

«Questi poveracci, che volgarité…».

Intanto lo stomaco brontola e torniamo a concentrarci sul menù che mescola spaghetti e carne, in stile Lilli e il Vagabondo, e comprende verdure dal dubbio colorito. Superate le prime riserve mentali (vogliamo un pezzo di Parmigiano!), scopriamo con sorpresa che il gusto è di gran lunga migliore dell’aspetto, con buona pace di Cracco e dei colleghi stellati. È proprio vero, con la pancia piena il mondo sembra migliore. Anche se, nell’ordine: 1) sta per diluviare, 2) ci aspettano ore di attesa in fila sotto l’ombrello, 3) abbiamo davanti ancora un’intera settimana di magri pasti. Che dire: glamour et luxe sur la Croisette. Più o meno...

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