ROMA – Woody Allen ha raccontato negli anni come per il concept di Broadway Danny Rose volesse riunire in sé due idee a cui stava pensando da qualche tempo per un film. La prima consisteva nel dare a Mia Farrow – al terzo dei suoi tredici film con Allen (Una commedia sexy in una notte di mezza estate, Zelig) – un ruolo insolente che sapeva perfettamente avrebbe amato. Un ruolo, quello di Tina, reso iconico da quei occhiali da sole, sempre fissi sul suo volto, con cui schermarle lo sguardo e darle mistero accentuandone l’intensità recitativa. L’altra riguardava la storia di un manager dotato di una particolare (e colorita) inerzia: «Allevava i suoi clienti solo per essere abbandonato da loro al primo accenno di successo». Il Danny Rose del titolo per l’appunto, liberamente ispirato a Jack Rollins.
Di Allen, Rollins è stato la guida e il produttore dagli anni Sessanta di Prendi i soldi e scappa agli anni Duemiladieci di Magic in the Moonlight. Prima che la sua strada s’incrociasse con quella di Allen però, Rollins si guadagnò da vivere come talent manager. Una carriera nata per caso. Durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, fu arruolato nell’esercito degli Stati Uniti come decodificatore di comunicazione di stanza in India. Uno dei suoi ufficiali in comando era l’attore Melvyn Douglas che aiutò attivamente nella messa in scena di spettacoli teatrali tra Cina, Birmania – dove Douglas ebbe modo di lavorare, tra gli altri, con Peter Sellers all’epoca membro della RAF Gang Show – e India. Di ritorno dal Fronte, Douglas ricambiò il favore indicandogli gli agganci giusti.
A Rollins devono le fortune il duo di improvvisazione comica e satira politica Nichols and May del futuro regista Mike Nichols (Il Laureato, Conoscenza carnale) e della regista e sceneggiatrice Elaine May. Ma soprattutto Harry Belafonte di cui Rollins produsse il primo album (Mark Twain and other Folk Favorites) fino a co-firmare il brano Man Piaba. Ognuno di loro prenderà poi altre strade, con Rollins che negli anni Sessanta divenne il partner artistico del produttore Charles H. Joffe finendo con il curare la carriera di alcuni dei più grandi comici e artisti di quella generazione: Dick Cavett, Billy Crystal, Robert Klein, David Letterman e Robin Williams. E naturalmente Allen su cui Rollins si espresse così: «Broadway Danny Rose? Woody conosceva quel mondo bene quanto me perché ne faceva parte tanto quanto me».
Ed era vero. Nei suoi primi passi nel mondo dello spettacolo, quando nel 1952 da Allan Stewart Königsberg passò a Heywood Allen firmandosi con lo pseudonimo Woody in onore del celebre clarinettista jazz Woody Herman, divenne presto un autore televisivo ricercato di quei The Tonight Show e The Ed Sullivan Show, prodotti di punta del network ABC. Questo finché, nel 1955, non passò a NBC per unirsi alla writing room del The Colgate Comedy Hour per poi, pochi anni dopo, nel 1958, diventare co-autore del The Chevy Show assieme a Larry Gelbart. Poi la svolta definitiva, la rinuncia alla carriera di autore televisivo (per cui guadagnava la bellezza di 1700 dollari a settimana!), per mettersi in proprio perseguendo il sogno di diventare un cabarettista. Qui entrano in scena proprio Rollins e Joffe e con essi il cuore di Broadway Danny Rose.
Per intenderci, Allen non siglò mai un contratto ufficiale con Rollins e Joffe: bastò una semplice stretta di mano per renderli parte della sua famiglia. Da qui i particolari contorni caratteriali romantici del suo Danny Rose. Un impresario dagli occhi dolci, fragile, idealista, ingenuo, pronto a farsi in quattro per i propri assistiti e a credere nella fiducia e nell’amicizia nei rapporti d’affari, e per cui la sofferenza non va rifuggita, ma accolta, come parte essenziale dell’esistenza («È importante farsi qualche risata, ma devi anche soffrire un po’, altrimenti perdi il senso stesso della vita» dice una delle linee dialogiche chiave del film). Un agente scenico mitologico reso grande da un Allen ispirato e profondamente intimo. E dire che lui, della sua performance in Broadway Danny Rose – e più in generale delle sue doti da interprete – ha sempre parlato in ben altri termini.
«Sinceramente non ho mai pensato a me stesso come un attore. Non potrei mai interpretare Cechov, o chissà quale vasta gamma di personaggi, ma ci sono una o due cose che posso fare: posso fare il bookmaker o un agente di basso livello come in Broadway Danny Rose. Anche se non lo sono posso sembrare uno studioso e fare l’intellettuale e farla franca, ma non ho alcun metodo, non provo né mi esercito. Non ho mai seguito una lezione di recitazione che sia una. È solo una cosa molto limitata quella che posso fare. Se c’è bisogno di quel personaggio puoi scritturarmi e lo farò, ma se c’è bisogno di qualcosa di più complesso, allora prendi Dustin Hoffman». E in effetti ci andò vicino, ad un attore di livello, per il ruolo del cinico adorabile alcolizzato cantante Lou Canova.
Prima che la casting director Juliet Taylor scoprisse il semisconosciuto cantante italoamericano Nick Apollo Forte – che al battesimo di fuoco si regala una performance di carattere fatta di cuore, buona presenza scenica e mimica impareggiabile – si fecero i nomi di Steve Rossi, Sylvester Stallone (che si sarebbe ritrovato con Allen tredici anni dopo il piccolo ruolo ottenuto in Il dittatore dello stato libero di Bananas), Robert De Niro e Danny Aiello che rimase talmente contrariato dall’idea di non poter prendere parte a Broadway Danny Rose come Lou Canova, da costringere Allen a promettergli un ruolo nel suo film successivo. Quel La rosa purpurea del Cairo indimenticabile capolavoro meta-cinematografico fiabesco in cui vestirà i panni del burbero Monk, il marito dispotico e fannullone di Cecilia (Mia Farrow).
E invece fu Forte e con esso l’implicito ridimensionamento del ruolo di Lou Canova (che infatti pare più una funzione scenica che non una vera componente caratteriale corposa e definita) e la scelta di Allen di focalizzare il punto di vista del racconto nel rapporto di amore-odio tra Danny e Tina. Sino ad arrivare a quell’ultimo confronto, silenzioso, secco, fatto di poche parole e di un campo/controcampo mitologico in primo piano da cui emerge tutto il delicato, fragile e sincero cuore romantico di un Broadway Danny Rose gemma filmica nascosta – o più semplicemente poco celebrata – dello sterminato opus filmico alleniano. Un film sul valore dei sentimenti, dei buoni sentimenti, in un mondo cinico e freddo, brillantemente fotografato dal DoP Gordon Willis di lapidari chiaroscuri alla maniera del miglior Bergman. E infatti fece furore all’epoca.
Non tanto al botteghino dove Broadway Danny Rose incasserà poco più di 10 milioni di dollari a fronte di un budget di 8 milioni messo a disposizione dalla Orion Pictures nonostante una narrazione in perfetto equilibrio tra momenti drammatici, commuoventi e altri profondamente comici (la sparatoria all’elio nda) tra passato e presente narrativo, ma a Cannes 37 dove la pellicola fu presentata fuori concorso raccogliendo numerosi consensi critici. Di sicuro fu ben accolto dai ristoratori del tempo. Nel finale del film si racconta che fu poi reso omaggio a Danny Rose dando il suo nome a un panino: un bagel ripieno di crema di formaggio e salsa marinara. Nel mondo reale anche, ma con ingredienti diversi: carne in scatola, pastrami e insalata di cavolo. Forse meno gustoso, ma abbastanza per parlarne come di grande cinema…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film
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