ROMA – Se la Trilogia del Dollaro ha rappresentato la codifica dei Leonismi e l’esplosione del Sergio Leone regista, la Trilogia del Tempo ha ridotto sempre più il dinamismo registico per concentrarsi sulla solidità narrativa trovando in C’era una volta in America l’apogeo artistico. La summa del secondo periodo del cineasta romano dove l’elegante montaggio delle sequenze action del dollaro venne soppiantato dalla fortissima dilatazione temporale del tempo. Un’evoluzione che ha visto Leone allontanarsi sempre più dalle estetiche e dal ritmo degli Spaghetti-Western in funzione di una maggior cura narrativa. Laddove C’era una volta il West ha rappresentato il saluto di commiato al genere attraverso una celebrazione del Western classico su estetiche Spaghetti – mentre il successivo Giù la testa ne ha inquadrato il definitivo abbandono nelle forme di un dramma storico a cornice Western – ecco infine C’era una volta in America.
Opera in cui Leone fece sua la narrazione del gangster raccontando del classicismo di Rififi, della rilettura de Frank Costello Faccia d’angelo e quella new-hollywoodiana de Il Padrino la cui regia – ironicamente – gli fu proposta da quella Paramount in cerca di un regista italiano che «Facesse sentire l’odore degli Spaghetti» ma che rifiutò, e per una ragione ben precisa: non era C’era una volta in America: il progetto della vita per Leone: «Quando scatta in me l’idea di un nuovo film ne vengo totalmente assorbito e vivo maniacalmente per quell’idea. Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio». Conclusasi la Trilogia del Dollaro, infatti, Leone volse le attenzioni al cinema gangster in una raccolta di idee, ispirazioni e suggestioni. Una fase germinale chiaramente, poi le interferenze.
Complici la cospicua offerta economica della United Artists per C’era una volta il West prima e l’impossibilità a collaborare con Sam Peckinpah per Giù la testa – progetti, entrambi, nei quali Leone voleva figurare unicamente come produttore – poté dedicarsi a C’era una volta in America soltanto alla metà degli anni Settanta quando rimase folgorato dal romanzo del 1952 Mano armata di Harry Grey pseudonimo di Hershel Goldberg, un gangster attivo nel periodo del Proibizionismo: a tutti gli effetti un’autobiografia romanzata. Per lo sviluppo dello script Leone si avvalse dell’apporto di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Franco Arcalli, Franco Ferrini ed Enrico Medioli. Poi a New York, il 17 febbraio 1984, quando il film fu presentato in una surreale proiezione-evento che fece esclamare a Krzysztof Zanussi: «Signori, il cinema è finito stasera». Un po’ come se non ci fosse (stato) più nulla da raccontare dopo C’era una volta in America.
Ad oggi è pressoché impossibile non considerarne il retaggio filmico senza l’apporto artistico di un Robert De Niro che della narrazione del tempo di Leone è cuore e anima, tanto da far esclamare all’autore una frase definitiva: «Non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles. Sono certo di aver fatto con lui C’era una volta il mio cinema, più che C’era una volta in America. De Niro si butta nel film e nel ruolo, mentre Eastwood indossa un’armatura e abbassa la visiera. Bobby, prima di tutto, è un attore. Clint, prima di tutto, è un divo. Bobby soffre, Clint sbadiglia». Eppure, che ci crediate o meno, non è mai stata la prima scelta di Leone che in origine avrebbe voluto avere uno fra James Cagney e Gerard Depardieu per la parte di Noodles.
Come Deborah invece – divisa scenicamente tra l’allora bambina prodigio Jennifer Connelly e una Elizabeth McGovern in rampa di lancio, perfette nel coglierne l’essenza fragile ed eterea da angelo terreno – si vociferò a un certo punto di Romina Power. Discorso ben diverso per il ruolo di Max, poi andato a un machiavellico James Woods reduce dall’esperienza cronenberghiana di Videodrome, ma per cui in origine Leone prese seriamente in considerazione Joe Pesci poi retrocesso al ruolo di Frankie Monaldi. Nulla, però, che vada ad inficiare l’insita bellezza delle immagini di C’era una volta in America (lo trovate su Netflix e Prime Video) a partire dall’incipit da cui emerge un ritorno alle origini all’immediatezza linguistica leoniana del dollaro tra digressioni temporali, capezzoli stimolati da una canna di pistola e lo squillare di un telefono fuori campo il cui incedere ossessivo scavalla allegoricamente nell’extra-diegetico incrociandosi con un muto. Poi l’intuizione.
Tra una Coney Island che diventa Grande Mela sulle note di una toccante cover di Yesterday e quella fumeria d’oppio resa iconica dalla dinamica del climax che ne restituisce l’essenza enigmatica, Leone dà vita a un C’era una volta in America che è puro gioco di scatole cinesi che vive di un contesto scenico sontuoso e curato, di contrasti tonali e d’atmosfera, di sequenze di raccordo di puro stile registico – e di montaggio – con cui giustificare narrativamente le digressioni temporali. Un formidabile racconto di immagini ed intenzioni che raccontano della giocosità di Noodles tra edicole bruciate, dolci da far venire l’acquolina e l’amore, scoperto sul tetto di un condominio e sognato dalle feritoie di uno magazzino da ragazzo e dalle brutali violenze scenicamente gratuite da adulto all’epoca del Proibizionismo. Non solo però perché C’era una volta in America vive anche delle dinamiche relazionali dei suoi protagonisti.
Come nel rapporto di amore-odio tra Noodles e Max il cui ruolo scenico muta da rivale, ad aiutante e alleato sino a nemesi in funzione di un’evoluzione caratteriale di uomini-scarafaggi che pur mutando nell’aspetto restano delinquenti di strada. Un retrogusto amarognolo caratteriale che diventa amarezza nel rapporto cardine alla base di C’era una volta in America. Quei Noodles e Deborah rincorsi per tutta la vita in un amore impossibile sognato e solo apparentemente da favola che nella macro-sequenza dell’appuntamento romantico lo si vede nascere, crescere nella magia rarefatta di un ballo al chiaro di luna che si riflette su un lago blu, per poi morire del tutto a bordo di una limousine. Tra un vestito strappato, urla lancinanti e violenza vera, Leone racconta della fine di un amore che non lo è mai stato: solo fissazione e violenza tra due specie diverse.
Un’eterea resa terrena per puro caso e una bestia mascherata da uomo. Un essere ontologicamente deviato a cui Leone non offre mai un’occasione evolutiva, una trasformazione. Non c’è alcuna redenzione nei personaggi di C’era una volta in America il cui agire è frutto di brama, malinconia e vendetta. Di contro, però, la specificità temporale del racconto permette a Leone di far vivere la narrazione di digressioni da cui costruire una velata ciclicità costruita di intuizioni, suggestioni e piccoli indizi sparsi che ne determinano la presenza nella sottile striscia limitrofa tra realtà e sogno. Quello che è senza dubbio il capolavoro della seconda parte di carriera – al pari de Il buono il brutto il cattivo nella prima – è un prodigio filmico di morte, iniquità, sesso, violenza, ingordigia, piombo, paura, sangue, tradimenti e amicizia virile.
È l’epica tragica di un uomo condannato sin dal primo momento alla dannazione nella disperata ricerca di un amore bramato, voluto e infine violentato. Un’elegia romantica arida di sentimenti e soprattutto il film della vita. Perché Leone, C’era una volta in America, l’ha saputo rincorrere ed aspettare, un po’ come l’amore tra Noodles e Deborah: «È senz’altro il mio film migliore e giuro che sapevo lo sarebbe stato dal momento in cui ho avuto in mano il libro di Harry Grey. Sono contento di avercela fatta anche se durante le riprese ero teso ma va sempre così: girare un film è terribile ma fare un film è delizioso». Leone però non l’ha demolito, l’ha reso grande, unico, consolidando la grammatica filmica della Trilogia del Tempo nell’apogeo della carriera così da regalarci un’opera eterna per cui, si, gridare davvero al miracolo.
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