ROMA – Per rendersi conto della piega più matura e impegnata intrapresa dal cinema leoniano da C’era una volta il West in poi, basti pensare, per un attimo, alla frase di Mao Tse Tung che campeggia nel prologo del racconto di Giù la testa: «La rivoluzione non è un pranzo di gala. Non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo. Non si può fare con così tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza». Nel caso di Giù la testa (Duck, You Sucker!) si trattò poi di prendere in prestito l’immaginario Western vestendolo di dramma storico così da preparare il terreno in termini narrativi e tematici per quel C’era una volta in America rincorso per tutta la carriera, un’opera di transizione insomma.
Noto anche con i titoli alternativi di C’era una volta la Rivoluzione (Once Upon a Time… The Revolution!) in funzione di una continuità nominativa con il capitolo precedente/successivo di C’era una volta il West e C’era una volta in America, nonché Per un pugno di dinamite (A Fistful of Dynamite) così da rievocare il passato del Dollaro di Per un pugno di dollari del 1964, in origine Giù la testa non avrebbe dovuto vedere Leone in cabina di regia. Il motivo? Proprio come nel caso di C’era una volta il West che Leone fece unicamente per la vantaggiosa offerta economica della United Artists mentre aveva la testa (e il cuore) altrove – e più precisamente nel mondo gangster di Noodles di C’era una volta in America – anche Giù la testa visse dello stesso conflitto interiore. A Leone non interessava dirigerlo.
Certo, firmò lo script assieme al fido Sergio Donati, ma inizialmente avrebbe dovuto figurare unicamente come produttore. Per la regia si pensò a Sam Peckinpah che – da promotore della riscossa Western revisionista con quel Il Mucchio Selvaggio realizzato come feroce risposta alla rivoluzione del dollaro leoniano che vide il suo apice con Il buono il brutto il cattivo – era il nome giusto e con la giusta tempra. Per, chiamiamole, divergenze caratteriali, il sodalizio Western eccellente Leone-Peckinpah non ebbe mai compimento in Giù la testa, spingendo il regista di Fresno a dedicarsi anima e corpo a quell’autentico capolavoro di Cane di paglia e Leone a tornare a malincuore dietro la macchina da presa.
A proposito del casting invece, se Leone spinse per riavere nuovamente il chapliniano Eli Wallach come Juan Miranda, la United Artists pose Rod Steiger come carta vincente al fine di dare maggior appeal commerciale internazionale a Giù la testa: i due saranno ai ferri corti per tutta la lavorazione. Per il ruolo di John Sean-Sean Mallory invece, inizialmente si pensò a John Wayne, scartato poi da Leone perché non adatto alla parte. La spuntò James Coburn che – al pari di Charles Bronson come Armonica in C’era una volta il West che per anni rifiutò la parte dell’Uomo senza nome poi andata a Clint Eastwood – fu protagonista di un celebre rifiuto. Di che stiamo parlando? Della parte di Sentenza in Il buono il brutto il cattivo poi resa storia del cinema dallo straordinario Lee Van Cleef.
Tutto al servizio di un Giù la testa ritenuto il più intimo dell’immenso opus leoniano a partire da quella metaforica apertura di racconto: una minzione su delle formiche di un uomo a piedi scalzi, trasandato e sudato. Tra piani medi, dettagli e campi lunghi, Leone ci introduce nel racconto a piccoli passi mostrando una chiara e netta opposizione tra lo sguardo fiero e le azioni del suo protagonista. Una codifica d’immagini che, per certi versi, sembra quasi un preludio a ciò che verrà. Un’inversione di tendenza che, dalla maestosità della messa in scena de Il buono il brutto il cattivo e C’era una volta il West, riduce il racconto a una dimensione più intima, sia su un piano registico e di costruzione dell’immagine, che narrativo raccontando di divario sociale tra nobiltà/capitalisti e popolo/peones.
L’ingresso scenico di Sean/Coburn, tra le più colorite atipicità caratteriali del cinema leoniano, vive di una presentazione moderna e incisiva fatta di gesti, esplosioni, poche parole e di un background definito da poche digressioni temporali spalmate lungo tutto il racconto, così da arricchire di senso il comparto valoriale di Giù la testa raccontando di rivoluzione per mezzo dei suoi protagonisti. Simulacri di due posizioni totalmente dicotomiche tra chi l’ha già vissuta e la conosce (Sean), e chi invece ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma la sta facendo (Juan). Così in una costruzione del racconto dai tempi filmici lenti e dilatati, tipizzato dal linguaggio filmico di cui la seconda trilogia leoniana si fregia, Leone rilegge il senso della Rivoluzione in un dramma storico a cornice Western dove la storia lascia il posto all’interpretazione: un colpo di genio.
Perché la Rivoluzione vista da Leone è molto oltre l’esaltazione dell’atto rivoluzionario fine a sé stesso nel rendere un mero affare di denaro da banditi divenne un atto sociale da eroi. Da intendersi, piuttosto, come una critica sociale che guarda alle dinamiche tra gli intellettuali e il popolo nel corso della storia. Se Michail Bakunin teorizzava ne Il patriottismo della rivoluzione come «Il massimo della libertà dell’uomo», ovvero di poter cambiare il sistema umano ingiusto determinato dalla storia passata come atto essenziale in termini evolutivi e ontologici – «L’uomo – dice Bakunin – Deve conoscere tutte le cause della propria esistenza e della propria evoluzione, affinché possa comprendere la propria natura e la propria missione», dall’altra Leone con Giù la testa se ne fa beffe: «Quando ero giovane credevo in tre cose. Il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite».
La critica di Leone alla rivoluzione è invece configurabile nelle parole di Juan/Steiger: «Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: Qui ci vuole un cambiamento! E la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! E lo sai che succede dopo? Niente… tutto torna come prima!» o di Giù la testa come atto d’accusa verso i Bakunin della storia schierandosi dalla parte del braccio armato di tutte le rivoluzioni.
Il risultato? Presentato a Roma il 29 ottobre 1971 Giù la testa (lo trovate oggi su NOWtv e Prime Video) vide Leone abbandonare del tutto i leonismi fatti di dinamismo ritmico, iconici trielli, oggetti scenici iconici e tutto ciò che riguardava la cura del mito che lo rese grande e leggendario, per realizzare un ambizioso gioiello di pura narrazione in controtendenza con tutto ciò in cui aveva messo la firma registica fino a quel punto. Un’opera imperdibile, raffinata, dallo spirito filmico educato. Il perfetto intermezzo con cui arrivare a C’era una volta in America, ma quella è tutta un’altra storia.
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