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Pulp Fiction | Samuel L. Jackson, Uma Thurman e i trent’anni del capolavoro di Quentin Tarantino

La genesi, John Travolta, Bruce Willis, Die Hard, la Palma d’Oro a Cannes. Riscoprire una leggenda

Quentin Tarantino sul set di Pulp Fiction, film del 1994, il suo incontrastato capolavoro
Quentin Tarantino sul set di Pulp Fiction, film del 1994, il suo incontrastato capolavoro

ROMA – Il 23 maggio 1994 non fu giorno come gli altri per Quentin Tarantino. In concorso a Cannes 47, fu insignito della prestigiosa Palma d’Oro per Pulp Fiction. Un verdetto inaspettato quello della giuria presieduta da Clint Eastwood. Perché tutti – compreso lo stesso Tarantino che si era espresso in suo favore – davano per certa la vittoria di quel Tre Colori: Film Rosso, atto finale della Trilogia dei Colori di Krzysztof Kieślowski e opera ultima dell’autore polacco. Fu una sorpresa, insomma, ma nemmeno più di tanto. Perché, ed è il suo retaggio trentennale a parlare, è davvero difficile trovare un altro film che abbia saputo incidere così tanto nell’immaginario collettivo al punto da plasmarne l’effige lasciandovi un segno indelebile come Pulp Fiction. Una pietra miliare del cinema postmoderno per gli omaggi e pastiche, la struttura narrativa a-lineare, le scene cult e la lista interminabile di cloni filmici.

I titoli di testa di Pulp Fiction
I titoli di testa di Pulp Fiction

Più che altro, nessuno, probabilmente, avrebbe immaginato che all’origine del viaggio, Pulp Fiction potesse perfino arrivare alla Palma d’Oro. Specie perché sarebbe dovuto essere un cortometraggio il capolavoro di Tarantino. Un soggetto co-firmato da Roger Avary nell’autunno del 1990 e ispirato a un suo lavoro precedente: Pandemonium Reigns, che dello script finale di Pulp Fiction rappresenta lo snodo centrale. Larga parte del segmento narrativo di Butch Coolidge (Bruce Willis) e Fabienne (Maria de Medeiros) viene da lì. Scelsero le forme del cortometraggio partendo dal presupposto che sarebbe stato più facile da realizzare di un lungo, per poi fare marcia indietro: nessuno glielo avrebbe loro finanziato. A questo punto della storia, Pulp Fiction è diventato un film trilogico composto da tre sezioni narrative collegate da un sottile filo tematico e dirette da tre registi diversi. Una sarebbe toccata a Tarantino, una ad Avary e una ad un regista senza nome.

Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino, è stato presentato a Cannes 47 il 21 maggio 1994
Pulp Fiction, il capolavoro di Quentin Tarantino, è stato presentato a Cannes 47 il 21 maggio 1994

Praticamente ciò che sarà poi Four Rooms, non a caso arrivato proprio all’indomani del trionfo di Pulp Fiction. L’ispirazione al centro di questa visione del concept era I Tre Volti della Paura, antologia horror di Mario Bava del 1963. Licenziato il progetto filmico come Black Mask, come l’omonima rivista di narrativa poliziesca hardboiled, Avary e Tarantino gettarono le basi delle proprie sezioni come fossero dei singoli lungometraggi. Un’idea, quella del film trilogico, che per Tarantino fu un chiodo fisso artistico già all’indomani de Le Iene, la sua travolgente opera prima: «Mi è venuta l’idea di fare qualcosa che i romanzieri hanno la possibilità di fare ma i registi no: raccontare tre storie separate, far fluttuare i personaggi dentro e fuori pesi diversi a seconda della storia. Prendere le storie più antiche del genere, vecchie forme di narrazione, per poi farle girare, di proposito, in modo sbagliato».

Uma Thurman in una scena di Pulp Fiction
Uma Thurman in una scena di Pulp Fiction

O per dirla in modo molto più diretto: «Parte del trucco di Pulp Fiction è stato prendere questi personaggi del film, questi personaggi di genere e queste situazioni di genere e applicarli effettivamente ad alcune regole della vita reale e vedere come si svelano. Volevo mostrare la quotidiana banalità della violenza, che quel filone ignorava. In genere in quei film vedi uno che spara, quello che muore, taglio sulla scena seguente. Qui invece restiamo a vedere come i personaggi reagiscono di fronte alle conseguenze dei loro atti. C’è un crescendo di tensione, ma poi non te ne vai via, rimani lì». Ma ci arriveremo. Perché a questo punto della storia – siamo nel marzo 1992 – Tarantino volò ad Amsterdam, insediandosi al Winston Hotel, popolare albergo nel quartiere a luci rosse. A lui si unì Avary che arrivò con sottobraccio lo script di Pandemonium Reigns.

John Travolta e Samuel L. Jackson in un momento di Pulp Fiction
John Travolta e Samuel L. Jackson in un momento di Pulp Fiction

Lì ad Amsterdam, partecipò alle riscritture di Pulp Fiction – a quel punto divenuto un lungometraggio fatto e finito – e allo sviluppo delle nuove trame che si sarebbero collegate a Pandemonium Reigns. In particolare, alcune scene che Avary scrisse per Una Vita al Massimo – e poi scartate dallo script definitivo – furono qui introdotte nel leggendario episodio di The Bonnie Situation. Fu di Avary l’intuizione dei colpi mancati miracoli dell’uomo armato nascosto nel bagno e l’uccisione accidentale di Marvin da parte di Vincent Vega (John Travolta). L’idea centrale invece, quella di un mondo criminale più pulito, fu ispirata a Curlded, un cortometraggio di Reb Braddock che Tarantino vide durante il tour promozionale italiano de Le Iene. A brillare sulla scena c’era Angela Jones che Tarantino volle nel film affidandole la piccola (ma importante) parte della tassista all’inizio dell’episodio Golden Watch.

Angela Jones in una scena del film
Angela Jones in una scena del film

A Curlded dobbiamo anche i marchi inventati dei Big Kahuna Burger e delle sigarette Red Apple presenti nel film. Una visione talmente folgorante per Tarantino da decidere, all’indomani del successo di Pulp Fiction, nel 1995, di produrre un lungometraggio omonimo (Curlded – Una Commedia Pulp) con ancora la coppia Angela Jones e Reb Braddock davanti-e-dietro la macchina da presa, così da renderlo parte integrante dell’universo narrativo tarantiniano. Intanto, però, arrivati a gennaio 1993, lo script di Pulp Fiction poteva dirsi ultimato. Ora si trattava solo di trovare un produttore disposto a crederci. Assieme a Lawrence Bender, Tarantino portò lo script a quella Jersey Films che ancor prima di finire di vedere Le Iene volle produrre il suo nuovo film a ogni costo. Fu una trattativa veloce. L’accordo di sviluppo fu di circa 1 milione di dollari.

Ving Rhames in un momento di Pulp Fiction
Ving Rhames in un momento di Pulp Fiction

Una cifra non indifferente che garantì finanziamenti iniziali e strutture alla neonata A Band Apart, ovvero la fu società di produzione di Tarantino e Bender. Dalla sua, la Jersey Films ottenne una quota del progetto e il diritto di acquistare lo script di Pulp Fiction in favore di una major. La TriStar Pictures per la precisione, con cui la Jersey aveva un accordo di produzione preferenziale (First Look) e di distribuzione. Per febbraio 1993, infatti, il film apparve in una lista di progetti in pre-produzione della major, ma non per molto. Il CEO della TriStar, Mike Medavoy, giudicò il concept demenziale, o meglio: «Questa è la cosa peggiore mai scritta. Non ha senso. Qualcuno è morto e poi è vivo. È troppo lungo, violento e non filmabile». Il problema alla base è che la TriStar giudicò Pulp Fiction come un high-concept che non avrebbe giustificato alcun finanziamento.

Un estratto del poster promozionale di Pulp Fiction
Un estratto del poster promozionale di Pulp Fiction

Di sicuro non gli 8 milioni e mezzo di dollari che Jersey Films e A Band Apart preventivarono. Bender portò così lo script di Pulp Fiction a quella Miramax Films recentemente acquisita dalla Disney e con a capo i famigerati Harvey e Bob Weinstein che a differenza di Medavoy ci videro lunghissimo e colsero al volo l’opportunità. Il film divenne il primo progetto della Miramax completamente finanziato, anche grazie ad alcuni accorgimenti tecnici. Weinstein riuscì a vendere il progetto nei mercati esteri in modo da ottenere 11 milioni di dollari in diritti di distribuzione che ne garantirono virtualmente la redditività. Dalla sua, poi, Bender contenne i costi di produzione scegliendo di pagare ad ogni attore la stessa cifra su piano settimanale. Questo perché gli accordi che la Miramax intraprese con il cast di Pulp Fiction si basavano su stipendi relativamente piccoli insieme, però, a una grande percentuale sui profitti.

Nel cast anche Christopher Walken
Nel cast anche Christopher Walken

A differenza della TriStar, tutti alla Miramax credevano nel successo di Pulp Fiction. A Cannes – molto prima che se ne parlasse in termini di Palma d’Oro – quando il film fu presentato in anteprima mondiale ad una oramai mitologica proiezione di mezzanotte, i Weinstein arrivarono come un commando in azione tanto da scegliere portare l’intero cast del film alla Croisette. E non sarà diverso al box-office world-wide dove il film incasserà oltre 213 milioni di dollari. Non a caso. Perché se la Palma d’Oro fu un’autentica sorpresa, il merito fu tutto del mestiere (e dell’ambizione) di un Tarantino capace di trasformare un high-concept partito come un cortometraggio adattato, in un kolossal postmoderno: «Avevamo 8 milioni di dollari ma volevo che Pulp Fiction assomigliasse a un film da 20-25 milioni di dollari. Volevo che sembrasse un’epopea. Ed è un’epopea: nell’invenzione, nell’ambizione, nella lunghezza, in termini di portata».

Ving Rhames e Bruce Willis in una scena del film
Ving Rhames e Bruce Willis in una scena del film

Secondo Tarantino: «Lo è in tutto, Pulp Fiction, tranne che nel prezzo. Il film è stato girato su pellicola con sensibilità 50 ASA, la pellicola più lenta in circolazione. La ragione per cui la usiamo è che crea un effetto quasi nullo e dà l’immagine sgranata. È la cosa più vicina al Technicolor degli anni Cinquanta». Ma soprattutto l’intuizione narrativa. Perché, si, basterebbero i semplici momenti cult per parlare di Pulp Fiction come uno spartiacque culturale se non perfino il capolavoro della sua decade. E quindi Mr. Wolfe (Harvey Keitel), «Risolvo Problemi» e The Bonnie Situation, il Big Kahuna Burger e «La colonna portante di ogni colazione vitaminica», gare di twist al Jack Rabbit Slim’s al ritmo dell’immortale You Never Can Tell di Chuck Berry e massaggi ai piedi, pilot televisivi, la valigetta dorata di Marsellus Wallace, il banco dei pegni di Maynard, «Mi chiamo Jerda…» ed Ezechiele 25:17.

«Ezechiele 25:17. Il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi...»
«Ezechiele 25:17. Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi…»

Ma nulla di tutto questo avrebbe inciso alla stessa maniera se non fosse per come ci viene raccontato da Tarantino. A partire dalla struttura narrativa. Nonostante l’evidente a-linearità e lo sviluppo armonico impropriamente episodico, Tarantino agisce in via ciclica. Pulp Fiction apre e chiude nello stesso episodio (A Colazione) opportunamente diviso in due parti. In esso, in quel lungo viaggio da 154 minuti fatto di digressioni temporali, suggestioni e omaggi, Tarantino procede con una destrutturazione del genere gangster che agisce su due piani: in termini di sviluppo e di significato. Da un lato, con la sua a-linearità, Pulp Fiction ribalta l’abituale inerzia lineare del genere, dall’altro, con le linee dialogiche brillanti, eclettiche e fresche, lo humour che scorre sottotraccia per manifestarsi nei modi più inaspettati, e le caratterizzazioni colorite degli agenti scenici unite ai topos del genere opportunamente ricodificati, Tarantino agisce sulle convinzioni dello spettatore.

Amanda Plummer e Tim Roth in una scena del film
Amanda Plummer e Tim Roth in una scena del film

A partire dalla coppia di sicari Vincent Vega e Jules Winnfield (Samuel L. Jackson), dichiaratamente ispirati alla coppia David Catania (Henry Silva) e Frank Webster (Woody Strode) dell’intramontabile, La mala ordina, neo-noir di Fernando Di Leo del 1972. Con Vincent, Tarantino rilegge il topos dell’intoccabile ma affascinante moglie del gangster – Mia Wallace (Uma Thurman) – dandovi una nuova luce e giocando di suggestioni meta-linguistiche tra un piccolo omaggio a Grease e uno decisamente più esplicito nella scena di ballo con La Febbre del Sabato Sera su base . Con Jules, invece, nelle pieghe sottili e solo apparentemente impercettibili modifiche del monologo Ezechiele 25:17 – ispirato a quello non dissimile di Sonny Chiba in Karate Kiba – Tarantino rilegge il topos dell’infallibile sicario prossimo al ritiro, dotandolo di spiritualità e di un’umanità invidiabile entrata di diritto nella storia del cinema.

La scena di Pulp Fiction
La scena di Pulp Fiction

E poi c’è Butch Coolidge con cui Tarantino gioca su un triplo livello meta-linguistico da far invidia a chiunque. Intanto l’ispirazione, perché nella rilettura del topos del pugile costretto al tappeto, su ammissione dello stesso Tarantino: «Volevo che fosse fondamentalmente come Ralph Meeker nel ruolo di Mike Hammer in Un bacio e una pistola di Robert Aldrich. Volevo che fosse così: un prepotente e un cogl*one». Film di Aldrich, tra l’altro, rievocato, inoltre, nella luce del MacGuffin tarantiniano dell’oramai mitologica valigetta di Marcellus Wallace (Ving Rhames). In origine il ruolo di Butch sarebbe dovuto toccare – tra i tanti (si fecero i nomi di Matt Dillon e Mickey Rourke) – a Sylvester Stallone così da giocare della suggestione primaria con l’intramontabile Rocky. Infine proprio Willis, convinto da Keitel a prendere parte a Pulp Fiction e con cui Tarantino poté alzare il livello meta-linguistico ampliandone il raggio d’azione.

Harvey Keitel in un momento di Pulp Fiction
Harvey Keitel in un momento di Pulp Fiction

Perché nelle battute finali del suo segmento narrativo, quando Butch esamina con cura con quale arma affrontare Zed (Peter Greene) e Maynard (Duane Whitaker), la scelta si riduce a: martello, mazza da baseball, sega elettrica e katana. La scena in sé, in un gangster movie come Pulp Fiction, assumerebbe da sola una particolare rilevanza in termini analitici. L’assenza dell’abituale arma da fuoco, infatti, in quel particolare contesto, è forse l’espressione più semplice degli intenti artistici tarantiniani, insieme giocosi e sovversivi. Ma con Bruce Willis a vestire i panni di Butch – ovvero il volto-e-corpo del John McClane della saga action di Die Hard tutto ha un sapore diverso. Perché Butch, con indosso la maglietta della salute sporca di sangue, mentre imbraccia una katana è null’altro che la rilettura tarantiniana del McClane del confronto finale di Trappola di Cristallo, armato di pistola e dalla canottiera intrisa di sangue.

Butch Coolidge, tra Die Hard e Quentin Tarantino
Butch Coolidge, tra Die Hard e Quentin Tarantino

Con quella sola, semplice, sequenza, Tarantino andò oltre i confini gangster della sua narrazione per prendere di petto il cinema action nella sua accezione più pura, rivoltando come un calzino il simulacro principe di quella stagione hollywoodiana. Un esempio di scrittura raffinata a più livelli che ha reso Pulp Fiction uno dei punti di riferimento cinematografici per intere generazioni di cineasti e semplici cinefili. Qualcosa di cui si rese conto lo stesso Tarantino che, poco prima della prima mondiale a Cannes, il 21 maggio 1994, convinse Roger Avery a rinunciare al credito concordato come co-autore dello script e ad accettare il solo Storia di Roger Avery e Quentin Tarantino, in modo che la frase Scritto e diretto da Quentin Tarantino potesse essere utilizzata in termini pubblicitari.

Nei cinema italiani Pulp Fiction fu distribuito il 28 ottobre 1994
Nei cinema italiani Pulp Fiction fu distribuito il 28 ottobre 1994

I due, manco a dirlo, da dopo Pulp Fiction, interruppero il loro fortunato sodalizio iniziato con Le Iene e proseguito poi con Una Vita al Massimo. Un piccolo torto su cui l’Academy Award riuscì a mettere una pezza. Agli Oscar 1995, infatti, a fronte di sette nomination, Pulp Fiction si porterà a casa l’Oscar alla Miglior sceneggiatura originale. E andrà ad entrambi l’Oscar: Avary e Tarantino. Da lì in poi, il primo tenterà la carriera del regista a corrente alternata realizzando quel cult assoluto di Killing Zoe e poco altro. Il secondo inizierà a gettare le basi di quel gioiello di Jackie Brown con cui celebrare il talento di Pam Grier e realizzare il proprio omaggio alla blaxploitation, ma quella è tutta un’altra storia…

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