ROMA – Il merito principale di quel tripudio filmico di Sukiyaki Western Django di Takashi Miike del 2007, a cui Quentin Tarantino prese parte come interprete e narratore, fu soprattutto uno. Quello di chiudere il cerchio del mito di La sfida del samurai ovvero di continuare la tradizione dei Yojimbo della storia del cinema dopo le riletture spaghetti-western di Per un pugno di dollari e Django a firma Sergio Leone e Sergio Corbucci, e quella gangster di Ancora vivo di Walter Hill, in una rievocazione dell’inerzia narrativa dell’immortale jidai-geki di Akira Kurosawa nuovamente tra i confini nipponici. Ed ecco quindi un sukiyaki-western caotico, folle, eccessivo, indecifrabile, piena espressione della poetica colorita dell’indomabile Miike. L’altro merito? Beh, fu quello di aver smosso qualcosa in Quentin Tarantino, un qualcosa che presto si sarebbe chiamato Django Unchained.
Sempre in quell’anno Tarantino iniziò a lavorare su un libro dedicato proprio a Sergio Corbucci e all’impatto avuto dalla sua visione spaghetti-western tra Django e Il grande silenzio: «Stavo scrivendo di come i suoi film abbiano questo malvagio e orribile selvaggio West. Un West surreale trattandosi di una critica al fascismo. Quindi, stavo scrivendo tutto questo, quando ho iniziato a pensare: Non so proprio se Sergio stesse davvero pensando queste cose mentre faceva Django, ma so che ci sto pensando io adesso e posso farlo!». Da qui l’intuizione al centro di Django Unchained, un Southern Spaghetti-western che raccontasse l’America al tempo della sanguinosa Guerra Civile: «Vorrei fare un film che affronti l’orribile passato dell’America schiavista, reso però come Spaghetti-western, non come un kolossal».
Un progetto ambizioso Django Unchained, a partire proprio dalla ratio di critica storico-sociale alla base del racconto: «Voglio farlo come fosse un film di genere che tratti tutto ciò di cui l’America non si è mai occupata perché se ne vergogna profondamente, e ciò di cui altri paesi non si sono mai occupati davvero perché sentono fino in fondo di non averne il pieno diritto». Cinque anni, due Oscar vinti nell’edizione 2013 (Miglior attore non protagonista, Miglior sceneggiatura originale) a fronte di cinque nomination e un fulgido retaggio decennale dopo, si può ben dire come Django Unchained sia certamente una delle espressioni filmiche più interessanti del Secondo Tarantino, quello del Mondo del film («Quello in cui le convenzioni e i cliché cinematografici vengono abbracciati in maniera quasi feticista») nato spontaneamente dalla narrazione di Kill Bill.
E non soltanto perché prima parte del dittico western conclusosi con quel The Hateful Eight inizialmente concepito come sequel di Django Unchained (il titolo? Django in White Hell) oltre che secondo capitolo della trilogia di revisionismo storico comprendente Bastardi senza gloria e C’era una volta… a Hollywood, ma anche per aver offerto due delle performance artistiche più incisive, brillanti e memorabili di quel decennio. Quei Christoph Waltz e Leonardo DiCaprio autori entrambi dell’interpretazione che vale la carriera. L’uno misurato e delicatamente intenso come volto e corpo di un Dr. King Schultz elegante, carismatico, loquace, rilettura postmoderna e caratterialmente dicotomica del topos Spaghetti del bounty killer abitualmente sporco, letale e di poche parole. L’altro esplosivo, brutale e strabordante come il diabolico e cattivissimo Calvin Candle, villain tutto d’un pezzo.
Nel mezzo la narrazione di un Django Unchained dal ritmo cadenzato e consumato, pieno zeppo di citazioni e omaggi, a partire dai temi musicali dell’originale Django e Lo chiamavano King… di Luis Bacalov, I giorni dell’ira di Riz Ortolani nonché quello leggendario di Lo chiamavano Trinità di Franco Micalizzi, sino a suggestioni e ispirazioni tra Nascita di una Nazione (la rappresentazione ridicola del Ku Klux Klan compiuta da Tarantino ha un ché di leggendario), I Sette Samurai, Bonanza, Minnesota Clay, Mandingo, Sfida a White Buffalo, A Better Tomorrow II e Battle Royale per citarne alcune. Un film infarcito di Leonismi registici e scorci fordiani opportunamente ricalibrati da Tarantino in chiave contemporanea. Tutti al servizio dell’epica di Django uomo libero e del suo viaggio dell’eroe straordinario.
Un viaggio memorabile che nello sgretolare le catene della schiavitù tra dialoghi sagaci, revolverate, esplosioni, fiumi di sangue, frustate al rallenti, combattimenti corpo-a-corpo di rara ferocia e cortocircuiti sociali come la caratterizzazione colorita e provocatoria del negriero Stephen di Samuel L. Jackson, vede Tarantino raccontare di uomini oppressi arsi vivi dal rimorso, dal ricordo e dal dolore. Alcuni di questi, come il negriero Stephen, divengono a loro volta singolari oppressori, altri come l’uomo libero Django di un Jamie Foxx particolarmente ispirato, rialzano la testa mossi dall’amore e dalla vendetta. Ecco, questo è uno dei nodi gordiani di Django Unchained (su NOWtv e Prime Video), la vendetta, o per meglio dire, lo scarto valoriale che c’è tra il definire Django Unchained una storia d’amore o una storia di vendetta.
Un confine sottile ma dal solco profondissimo che ha segnato profondamente la lavorazione e nello specifico le scelte di casting di Django Unchained. Foxx, si, ebbe la meglio in una short-list di nomi che comprendevano il compianto Michael K. Williams, Idris Elba e Tyrese Gibson, rivelandosi come un efficace e compiuto Django. Ma se osservate bene ogni sequenza, ogni interazione con Waltz e DiCaprio, ogni linea dialogica dall’humour incisivo e velatamente brillante, l’impressione è sempre che manchi qualcosa nelle sue intenzioni recitative. In altri termini: come se il ruolo di Django fosse stato scritto da Tarantino per qualcun altro. Quel qualcuno era Will Smith che con Tarantino arrivò fino alle battute finali della pre-produzione tanto da esclamare: «Per me Django Unchained era la storia perfetta che qualunque attore possa desiderare».
A detta di Smith infatti: «Un tipo impara ad uccidere per salvare sua moglie, catturata come schiava. Questa idea è perfetta. Ed è stato proprio su questo che io e Quentin non eravamo d’accordo. Con Django Unchained volevo realizzare la più grande storia d’amore che gli afroamericani avessero mai visto. Abbiamo parlato, ci siamo incontrati, ci siamo seduti per ore ed ore. Volevo fare questo film così tanto, ma sentivo che sarebbe dovuta essere una storia d’amore, non una storia di vendetta. Non credo nella violenza come reazione alla violenza. La violenza genera violenza. Quindi non riuscivo a collegare la violenza come unica risposta. L’amore doveva essere la risposta». Tra l’altro non un casting a caso quello di Smith, piuttosto da intendersi come una sorta di citazione morfologica del suo ruolo in Wild Wild West.
Il celebre (s)cult del 1999, squinternata rilettura western in chiave steampunk, rappresentò un crocevia importante nella carriera di Smith. Nel 1998 si trovò costretto a scegliere tra il copione di Wild Wild West e quello di Matrix. Scelse il primo. Ecco, oltre che western dei sogni di Tarantino e ode al genio di Corbucci, Django Unchained sarebbe potuta essere l’ideale redenzione filmica di Smith. Non andrà così, ma quell’intuizione di una grande storia d’amore americana al tempo della Guerra Civile rimarrà per ben dieci anni nel suo cuore, tanto da arrivare a metterci la faccia e i capitali. Il titolo? Emancipation – Oltre la libertà (su Apple TV+), non un gran film (ma un buon Smith), a dimostrazione che Tarantino c’aveva visto lungo: non poteva essere una storia d’amore, ma di vendetta…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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