in

Matrix | Keanu Reeves, Carrie Anne-Moss e i venticinque anni di un mito

Le Wachowski, le ispirazioni, Will Smith, la difficile genesi. Dietro le quinte di un cult assoluto

Matrix, nascita del mito
Matrix, la nascita del mito. E delle due pillole...

ROMA – «Bad business». Era questa la nomea che si era creato lo script di Matrix tra gli executives hollywoodiani dell’epoca. L’idea intrigava. Era suggestiva. Ma quel guizzo artistico fantascientifico di rediviva creatività New Hollywood di Andy e Larry Wachowski (oggi Lilly e Lara) suonava come un investimento rischioso. Del resto non è che la storia della fantascienza hollywoodiana anni Novanta fosse esattamente di conforto per le Wachowski: Strange Days, Johnny Mnemonic, Waterworld per citarne alcune. Tutte opere fraintese al tempo e riscoperte negli anni, opere dalle peculiarità concettuali estreme, distopiche, ucroniche, che finirono con il rendere la fantascienza un genere filmico di basso appeal commerciale. Eppure per Matrix le cose presero una piega diversa. Da subito. E non perché la dea bendata avesse in qualche modo scelto le Wachowski. A differenza dei suggestivi ma problematici precedenti illustri, infatti, tra le righe dello script di Matrix batteva un cuore di pura ispirazione artistica. Da avide consumatrici di fumetti e manga il sogno delle Wachowski era solo uno: realizzare il primo anime in live action nella storia di Hollywood.

Pillola rossa o pillola blu?

Non a caso, nel presentare Matrix, i principali riferimenti corrispondevano a tre capisaldi del genere: Akira, Ninja Scroll, e Ghost in the Shell. Una visione imponente e avveniristica quindi. Capace di unire profondità di pensiero filosofico memorabile e sequenze action al limite dell’impossibile: pura suggestione filmica in potenza. Di quelle che fanno drizzare le orecchie: incredibili sul piano artistico ma dall’elevato rischio. Fu così ad esempio per quel vecchio di lupo di mare di Joel Silver che fin da subito intuì la valenza filmica di Matrix comprendendone però le criticità produttive. Le strade di Silver e delle Wachowski si incrociarono per la prima volta nel 1994 sul set di Assassins. Le sorelle erano al battesimo di fuoco come sceneggiatrici e convinsero tutti. Al punto che Lorenzo di Bonaventura, al tempo boss della Warner Bros, le mise sotto contratto per due film. Tra questi – almeno nelle loro idee – c’era proprio Matrix che le Wachowski volevano fosse il loro esordio alla regia. Di parere contrario Silver che riteneva invece Matrix un film difficile come opera prima. Consigliò loro di farsi le ossa con una regia di rodaggio. Qui entra in scena proprio Bound – Torbido inganno la cui aura di instant-cult da sporco e provocatorio crime diede alle Wachowski credibilità e scioltezza nel proporsi come registe.

Trinity (Carrie-Anne Moss) e Neo (Keanu Reeves) in una scena di Matrix.
Trinity (Carrie-Anne Moss) e Neo (Keanu Reeves) in una scena di Matrix.

Come sempre però Silver ci vide lunghissimo. Nei successivi cinque anni Matrix entrerà in un semi-infinito loop produttivo: quattordici bozze di sceneggiatura e oltre seicento storyboard esplicativi dopo (!!!) per gli executives della Warner c’era un piccolo problema: il soggetto di Matrix rimaneva ancora incomprensibile. Iniziò così a girare la voce secondo cui la Warner aveva talmente poca fiducia nelle Wachowski e in Matrix da dare loro 10 milioni di dollari di budget contro i 60 preventivati. Un po’ per provocazione, un po’ per sfida, le Wachowski li utilizzarono interamente per la suggestiva e iconica sequenza introduttiva Wake up Neo. Follow the White Rabbit. Tanto bastò alla Warner per capire che quella era la strada giusta da seguire e che con le Wachowski c’era poco da scherzare. Soprattutto perché, dal canto loro, riuscirono nella non facile impresa di trasformare i punti deboli di Matrix nei suoi punti di forza. Oppure, per dirla in altri termini: l’apparente incomprensibilità in complessità.

Keanu Reeves e il mitico Nokia 8110 in Matrix
Keanu Reeves e il mitico Nokia 8110 in Matrix

Perché sì, Matrix è complesso. Molto. L’imponente opera delle Wachowski poggiava infatti le proprie basi narrative sul concetto postmoderno di simulazione e iperrealtà (o computer-realtà). Concetto teorizzato da Philip K. Dick nel 1977 – e riecheggiante alla Prima meditazione delle Meditazioni metafisiche del 1641 di Cartesio – secondo cui viviamo in una realtà programmata dai computer il cui unico indizio di questa percezione per l’individuo è frutto del cambiamento di alcune variabili. Il concetto verrà poi ampliato in chiave semiotica sulle relazioni che intercorrono tra realtà, simboli, e società nel saggio Simulacri e Simulazioni di Jean Baudrillard del 1981 (citato in apertura di racconto e testo da studiare per ogni attore) e ricalibrato in chiave cyberpunk nel Neuromante di William Gibson nel 1984. Tante suggestioni di cui le Wachowski si servirono rimescolandone la consistenza in un processo che è pura osmosi culturale creativa. Per quasi un’ora e dieci di minutaggio, infatti, l’inerzia del racconto di Matrix vede virare sensibilmente verso la lenta costruzione dello stratificato mondo straordinario in forma rigorosa e colorata cementificando, al contempo, l’appartenenza alla fantascienza alta.

Neo, l’eletto.

Qui, tra svolte narrative popolate di evidenti costruzioni allegoriche rievocanti l’immaginario fiabesco di Alice nel paese delle Meraviglie, e chiare allusioni circa la matrice cristologica dell’arco di trasformazione dell’eroe protagonista Neo, le Wachowski procedono verso una progressiva semplificazione della complessa materia narrativa della propria creatura attraverso un impianto lineare con cui accompagnare lo spettatore per mano sin dentro la tana del Bianconiglio (e oltre) tra strizzate d’occhio e riferimenti di cultura popolare. Dalle pendici del terzo atto in poi cambia tutto. L’inerzia filosofeggiante tra Cartesio, Dick, e Gibson dei primi due atti viene del tutto asciugata lasciando il posto ad un sorprendente cinema da combattimento dalle evoluzioni degne dei migliori John Woo e Ringo Lam. Tra fragorose esplosioni, «Armi… tante armi», e un linguaggio filmico sperimentale e innovativo Matrix vede così emergere una solida componente action resa convincente dall’apporto artistico del regista cantonese Woo-Ping Yeun (Il serpente all’ombra dell’aquila, Drunken Master) per le resa stilistica che troverà conferma e consolidamento nei successivi Matrix Reloaded e Matrix Revolutions.

Morpheus, il nostro personaggio preferito
Morpheus, il nostro personaggio preferito…

Proprio per la complessità della natura narrativa, negli anni – complice la duplice transizione di Andy e Larry come Lilly e Lara Wachowski – il messaggio di Matrix si è spontaneamente evoluto, quasi fosse un organo vivente, passando dall’essere un’allegorica riflessione sulla presa di coscienza dell’individuo nei confronti della società circostante, a una presa di coscienza dell’individuo in relazione – invece – alla propria identità. Qualcosa che ha reso fiere le Wachowski. In particolare Lilly che nell’applaudire alla mutevolezza dell’occhio critico attraverso la lente della transizione ebbe a dire come: «È una cosa interessante. Un’eccellente promemoria di come l’arte non sia mai statica». E Matrix è arte: capolavoro senza tempo dalla percezione in continua evoluzione. Non tutti però lo capirono. Keanu Reeves, ad esempio, ne rimase intrigato fin da subito ammettendo, anni dopo, di non aver saputo leggere tra le righe del sottotesto gender. Carrie-Anne Moss si chiese invece quanto la gente avrebbe dato fiducia alla visione delle Wachowski.

Carrie Ann Moss e Keanu Reeves in Matrix. Era il 1999

Laurence Fishburne, al contrario, non credeva che un film così acuto avrebbe mai visto il buio della sala. Ma chi proprio non lo comprese lontanamente – e non per demerito suo, va detto – fu invece Will Smith. Nel 1996 i Wachowski lo incontrarono per il progetto. Poco convinto, e confuso, Smith rifiutò il ruolo di Neo in favore del James West di Wild Wild West spalancando, indirettamente, le porte a Reeves. Da quanto raccontato da Smith infatti sembrerebbe che il pitch delle Wachowski fu scomposto. Si concentrarono sulle innovazioni estetiche (tipo il bullet time) piuttosto che sul cuore di Matrix. Ciò non toglie che in quanto ad istinto e scelta l’ex Principe di Bel-Air avesse (e abbia) ancora molto da imparare. Quasi quindici anni dopo infatti si ripeté e in modo ancora più doloroso. Quentin Tarantino scrisse il ruolo di Django in Django Unchained ispirandosi a lui. Smith disse di no perché riteneva che Django dovesse essere mosso da sentimenti d’amore e non di vendetta: il resto è storia. Come Matrix.

  • LONGFORM | Blade Runner e un origami di cinema immortale
  • LONGFORM | L’Implacabile, le profezie di un cult da riscoprire
  • VIDEO | Qui per il trailer originale datato 1999 di Matrix:

Lascia un Commento

VIDEO | Deborah Ayorinde, Pam Grier e il trailer di Them: The Scare

Le pagine di Philip Roth e quel lungo romanzo americano diventato cinema