ROMA – Dopo Point Break la carriera di Kathryn Bigelow era in ascesa. Perché? Perché il suo era un cinema vero. Sporco, fatto di sequenze action corpose e di tematiche esistenziali e mature. Dopo i bikers del drama d’esordio The Loveless e l’horror con l’atipico Il buio si avvicina, il cop tra il drama solido de Blue Steel e il buddy del sopracitato Point Break, la Bigelow si affacciò alla fantascienza distopica con un azzardo totale: Strange Days. Un’opera sagace dal titolo tipicamente – anzi dichiaratamente – doorsiano, preso da Jim Morrison e poi permeata di citazionismo e toni sporchi, che confermava gli stilemi della poetica della sua cineasta e della sua inventiva, ma soprattutto di pura innovazione e non solo per quell’anima sociale più forte oggi che non in quel 1995 distributivo che lo vide presentato fuori concorso a Venezia il 3 settembre.
Per Strange Days e per James Cameron – che qui figura come produttore e co-sceneggiatore e che della Bigelow è l’ex-marito (divorziarono nel 1991) – l’innovazione tecnologica della soggettiva in extended POV fu fondamentale e grazie ad una cinepresa leggera da 35mm progettata su un impalcatura da steady-cam diede dinamismo e vivacità al racconto, facendoci immergere nel sub-urbano distopico di una Los Angeles molto più vicina di quanto non sembri (soprattutto oggi). I filo-viaggi – clip cerebrali che di Strange Days sono cuore e anima, qui sopra e sotto potete vedere i finti spot fatti dalla produzione – sono null’altro che proto-snuff movie (ma non solo) nel loro essere una valvola d’astrazione della realtà in un agire passivo di cui Lenny Nero (Ralph Fiennes) è avido consumatore e al contempo smerciatore: «Posso farti avere quello che vuoi. Perché io sono il tuo strizzacervelli, il tuo collegamento diretto alla centralina delle anime…».
La miglior spiegazione della ratio dei filo-viaggi però ci viene data dallo stesso Strange Days e da una linea dialogica parecchio esplicativa: «Questa non è come la TV, è un po’ meglio. Questa è vita reale. Un pezzo di vita di qualcuno. Puro e integrale, dritto dalla corteccia cerebrale». Per poi proseguire sottolineando l’aspetto esperienziale: «Insomma, sei lì, lo stai facendo, lo stai vedendo, lo stai sentendo, lo stai provando. Esattamente qualunque cosa tu voglia, chiunque tu voglia essere, okay? […]. Come irrompere in un negozio di liquori con una 357 Magnum, sentire l’adrenalina che ti pompa nelle vene.» A questo si associa una riflessione al limite della vacuità dei festeggiamenti di Capodanno in un mondo allo sbando, in un concept che trasuda pessimismo al sapore di quella fantascienza sociale degli anni Cinquanta di cui Strange Days è discendente.
Un sapore che trova potenziamento di valore nel raccontare delle ultime ore a cavallo tra Vecchio e Nuovo Millennio. La forza di Strange Days sta proprio nella sua genesi a metà degli anni Novanta con cui gettare un occhio critico alla fine della decade di riferimento. Un near-future quindi, che non guarda a dieci/vent’anni in avanti, piuttosto a poco meno di quattro anni dopo. In un domani mascherato da presente o di giorni di un futuro (ormai) passato da cui la Bigelow delinea una distopia feroce, amara, cupissima che cova al suo interno una riflessione critica della sua epoca. Paradossalmente però è proprio l’atipicità di Strange Days la sua debolezza. Nel raccontare infatti degli usi fantasiosi dello SQUID come fotocamera ex-ante, Strange Days va ben oltre l’avvenirismo del progresso tecnologico costruendo una connotazione fantascientifica fuori dalla propria epoca di riferimento.
Intenti di cui la Bigelow era consapevole: «Penso che alla vigilia del nuovo millennio, un punto nel tempo tra soli quattro anni, esistono ancora le stesse questioni sociali, le stesse tensioni razziali, perfino l’ambiente ha ancora bisogno di un riesame. Strange Days è provocatorio, è accusa ammonitrice, è campanello d’allarme. Direi che stiamo guidando verso un finale altamente caotico, esplosivo, volatile, simile ad un Armageddon». Come lo è il climax di Strange Days che serra le fila di un solido intreccio neo-noir dalle atmosfere da cinema classico rese in una miscellanea postmoderna degna di Brazil e Blade Runner tra femme fatale (la Faith di Juliette Lewis che canta PJ Harvey ne è il perfetto archetipo) doppi-giochi e twist spiazzanti resi formidabili dal Max Peltier di un grande (e viscido) Tom Sizemore con cui guardare al passato per volgere al futuro nel leggere le aberrazioni del presente.
Ma da dove nasce l’idea di Strange Days? Che ci crediate o meno Cameron ne immaginò i lineamenti nel lontano 1986. Sottopose lo script alla Bigelow che si innamorò immediatamente dei suoi protagonisti: «Questi due personaggi alla vigilia del millennio, con un protagonista che cerca di salvare la donna che ama, è grande matrice emotiva». Fu però nel draft successivo che Cameron e Bigelow delinearono gli aspetti socio-politici della Los Angeles al centro del racconto dove si occuparono – rispettivamente – del tono romantico e «del nervosismo, della grinta» del ritmo delle parole. Ne derivò un trattamento di novanta pagine definito da Cameron così: «Più un romanzo che uno script. Imponente, ingombrante, gli serve una struttura». Struttura che divenne sceneggiatura fatta e finita soltanto nel 1993.
Ma per la Bigelow era già film, un suo film. Il motivo? Gli incidenti accaduti negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta come il processo Lorena Bobbitt, il verdetto di Rodney King e le rivolte di Los Angeles del 1992 di cui la regista – che poi avrebbe vinto l’ Oscar per The Hurt Locker (qui per il nostro Revisioni) – fu diretta osservatrice: «Sono stata coinvolta attivamente e rimasta commossa da quell’esperienza. Ho vissuto quei giorni con un senso palpabile di rabbia, di frustrazione e della disparità in cui abitiamo». Lo script di Strange Days – che per la Bigelow rappresentò «La sintesi di tutte le tracce esplorate deliberatamente o inconsapevolmente come regista» – fece parte di un accordo di produzione tra la Lightstorm Entertainment di Cameron e Lawrence Kasanoff e la 20th Century Fox assieme ad un altro grande cult di quel tempo: True Lies diretto dallo stesso Cameron.
È una storia particolare quella al centro della divisione dei finanziamenti di quell’accordo. Tanto che, se in origine la torta avrebbe dovuto essere divisa tra 30 milioni di dollari per Strange Days e 70 per True Lies, lo sviluppo dei progetti e la lavorazione di due progetti decisamente differenti tra loro, vide l’opera di Bigelow gonfiarsi a 42 milioni di dollari mentre quella di Cameron esplodere oltre i 120 milioni. Il risultato? Gli incassi al botteghino ne decreteranno per sempre il destino (e il retaggio). Con Strange Days i cui 8 milioni di dollari scarsi ne edificheranno la triste – e immeritata – aura di flop commerciale (poi si mise anche Nanni Moretti a sbeffeggiarlo in Aprile) e True Lies i cui 380 milioni di dollari lo resero leggendario. Eppure rivisto oggi in tempi complessi e indecifrabili, Strange Days è un film clamorosamente moderno-
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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