ROMA – Nel 1962 Chris Marker realizzò La jetée, cortometraggio di ventotto minuti di fantascienza distopica à la Philip K. Dick quasi prima di Dick, una favola psicologica dallo spiccato tono parossistico che intrecciava amore e predestinazione tra l’alba e il tramonto della Terza Guerra Mondiale. L’opera, resa come un fotoromanzo sci-fi nel suo incedere di allucinanti visioni fotografiche post-atomiche codificò un linguaggio filmico decisamente insolito, fino a sconfinare in un terreno narrativo e tonale che rivedremo poi soltanto nella fantascienza degli anni Ottanta. Oltre trent’anni dopo, Terry Gilliam colse a piene mani l’anima de La jetée veicolandola – in un arguto processo di bricolage narrativo con il racconto breve The Skull di Philip K. Dick del 1952 – nel racconto de L’esercito delle 12 scimmie. L’idea di una rielaborazione postmoderna de La jetée venne all’executive Robert Kosberg che convinse perfino Marker (scomparso poi nel 2012) ad appoggiare l’idea da presentare alla Universal.
A progetto avviato – e già con uno script solido sulle spalle – il primo e unico nome considerato per la regia fu proprio Gilliam che dopo l’eccellente Brazil di appena dieci anni prima e reduce dal bellissimo e sfortunatissimo La leggenda del re pescatore, era ritenuto il profilo giusto sia in termini narrativi e tonali che produttivi tanto da guadagnarsi il final cut privilege di diritto, specie dopo l’illustre precedente con Sid Sheiberg. Il suo stile distopico ed estraniante ben si sposava con la narrazione de L’esercito delle 12 scimmie. L’ex Monty Python commentò così lo script di David Webb e Janet Peoples e la possibilità di misurarsi con una simile opera: «La storia? Devo dire che è sconcertante. Si tratta di tempo, di follia e di una percezione di ciò che il mondo è oppure non è. È uno studio di follia e di sogni, di morte e di rinascita ambientata in un preciso mondo a venire…».
In realtà, nonostante una certa armonia di parole, intenti e dichiarazioni, L’esercito delle 12 scimmie ebbe in realtà non poche problematiche in pre-produzione. Il 1995 di riferimento fu lo stesso anno di Waterworld di Kevin Reynolds, tra le produzioni più dispendiose del tempo con i suoi 178 milioni di dollari di budget. Il risultato? Nonostante avesse nel cast due divi come Bruce Willis e Brad Pitt e un budget stanziato di poco meno di 30 milioni di dollari, per ottenere l’approvazione finale Gilliam si ritrovò costretto a convincere Willis ad abbassarsi il cachet. L’attore acconsentì. Ironicamente però, nonostante la caratura degli interpreti, non erano Willis e Pitt volto e corpo, rispettivamente, di James Cole e Jeffrey Goines ma Nick Nolte e Jeff Bridges a cui Gilliam dovette rinunciare a causa di Waterworld. Nessun problema invece per Madeleine Stowe che come Kathryn Railly fu la prima e unica scelta per Gilliam.
«5 miliardi di persone moriranno nel 1997 a causa di un virus mortale. I sopravvissuti abbandoneranno la superficie del pianeta. Ancora una volta gli animali domineranno il mondo». Un’enigmatica (e profetica, con il senno di poi) apertura di racconto in un raccordo che unisce passato e presente: questa è la base di partenza de L’esercito delle 12 scimmie attraverso cui Gilliam costruisce un rigoroso mondo distopico avvolto in una visione da apocalittico e denso near-future. Il regista non lasciò veramente nulla al caso catapultando lo spettatore in una metropoli desolata e innevata disseminata di orsi selvatici e blatte nell’eco di canti natalizi dimenticati. Il perfetto incontro di civiltà perduta e giorni di un futuro passato restituitoci attraverso un occhio registico virtuoso e vivace fatto di movimenti di macchina veloci, piani medi distorti, campi lunghi immersivi a perdita d’occhio e un effetto d’astrazione e asetticità senza filtri dal forte respiro grottesco.
Gioca così Gilliam con le percezioni dello spettatore, avvolgendo L’esercito delle 12 scimmie in una narrazione dal solido intreccio il cui dispiego viene continuamente rivitalizzato dall’uso massiccio di digressioni temporali. Tra passato, futuro e presente Gilliam interviene nella crescita del conflitto attraverso un delicato uso del montaggio alternato che va ad alterare la percezione della realtà e della soggettività del ricordo dell’evento traumatico alla base della narrazione diradandone infine la nebbia attorno al suo ruolo vitale nell’economia del racconto. Nel mezzo, il regista costruisce e ricostruisce continuamente le dinamiche relazionali, ora facendo evolvere Reilly/Stowe da sfumato antagonista ad aiutante, ora nel rendere Goines/Pitt da aiutante a simil-villain ponendovi al centro il Cole di Willis : «Il personaggio di Cole», spiegò il regista, «è stato inviato da un altro mondo nel nostro ritrovandosi di fronte alla confusione in cui viviamo che molte persone in qualche modo accettano come normale…».
Gilliam proseguì poi sottolineando la valenza narrativa del personaggio di Willis per gli equilibri filmici de L’esercito delle 12 scimmie: «In questo modo a lui appare anomalo e ciò che sta accadendo intorno a lui sembra casuale e bizzarro: è lui a essere matto o lo siamo noi tutti?». Così gli cuce addosso un arco di trasformazione che lo fa evolvere da agente scenico dall’inerzia passiva frastornato dalle droghe, ad attivo e competente in balia di un mondo che pone al centro il ruolo da consumatore folle attenuando sempre più – come diretta conseguenza – la forbice tra lo scopo scenico, la portata del viaggio dell’eroe, e la sua dimensione caratteriale. Ed è nell’iconico climax infatti che L’esercito delle 12 scimmie alza sensibilmente la cifra stilistica del racconto, ora ridimensionando sensibilmente la portata sociale delle 12 scimmie, ora consolidando gli intenti di predestinazione al centro del paradosso temporale.
Un processo arguto attraverso cui giocare con il rapporto di casualità e il topos del doppio tra morfologia ed elementi caratteriali legandola infine al Principio di autoconsistenza di Novikov sulla ratio nel viaggio del tempo che diventa quindi di predestinazione e non più di risoluzione finendo con lo scriverne una nuova significazione che va ad incidere sul conflitto stesso, sulla specifica ratio filmica, nonché sull’inerzia delle già malleabili dinamiche narrative al centro de L’esercito delle 12 scimmie. Presentato a New York l’8 dicembre 1995 per poi arrivare agli Oscar 1996 dove conquistò due nomination (Miglior attore non protagonista e Migliori costumi), con i suoi 168 milioni di dollari di incasso fece piazza pulita della concorrenza sci-fi del tempo, in particolare di Waterworld i cui 264 milioni di dollari al box-office non gli impedirono di scollarsi di dosso l’aura di flop commerciale-e-artistico.
A quasi trent’anni di distanza dall’arrivo nelle sale, L’esercito delle 12 scimmie vede la propria dimensione extra-filmica crescere sempre di più nel retaggio di una lettura del nostro tempo nichilista e preoccupante, cristallizzato da una battuta pronunciata dal Dottor Peters di David Morse nel climax che pone l’accento sulle ragioni del declino della civiltà moderna: «Esistono dati reali che confermano che la sopravvivenza della Terra è compromessa dagli abusi della razza umana. La proliferazione dei dispositivi nucleari, i comportamenti sessuali smodati, l’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria, il degrado dell’ambiente. In questo contesto non le sembra che gli allarmisti abbiano una saggia visione della vita? E il motto dell’homo sapiens: andiamo a fare shopping, sia il grido del vero malato mentale?». Del resto la chiave di lettura dell’opera di Gilliam era già bella che chiara nell’apertura di racconto.
Gli scienziati del 2035 non chiedono mai a Cole di intervenire sul passato per scongiurare la pandemia, bensì di indagarne le cause. La coscienza acquisita da Cole negli anni Novanta però gli farà mutare la predisposizione all’agire arrivando a pensare realmente di poter salvare il mondo come ogni viaggio dell’eroe vi compete. Al pari di Brazil però – e di una chiusa che impacchetta i sogni idealistici di Sam Lowry in uno tragico e straziante stato di dolce catalessi – L’esercito delle 12 scimmie non dà alcuna speranza di salvezza, condannando l’umanità e i suoi vizi alla dannazione pandemica. Una profezia?
- HOT CORN TV | Terry Gilliam racconta il suo cinema
Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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