ROMA – Il cinema di Walter Hill rimane ancora oggi tra i fiori all’occhiello di quel periodo di profonda rivoluzione narrativa e industriale affrontata dal cinema americano tra gli anni Settanta e Ottanta. Un cinema creativo fatto di silenzi esistenziali di guidatori solitari come in Driver – L’imprendibile, di western biografici come I cavalieri dalle lunghe ombre, e dell’Anabasi di Senofonte (IV secolo a.c.) e dei suoi Diecimila, riletto opportunamente in chiave postmoderna tra The Warriors – I guerrieri della notte e I guerrieri della palude silenziosa. Infine l’apogeo, quantomeno in termini commerciali, con 48 ore che nel 1982 si impose come il settimo maggiore incasso della stagione cinematografica con i suoi 78 milioni di dollari al box office statunitense.
Presentato l’8 dicembre del 1982, 48 ore (su Prime Video) entrò in punta di piedi nel cinema che conta ergendosi, gradualmente, come una delle più preziose pellicole cop-crime del tempo. Il motivo? La rilettura del genere di cui si faceva portatore. Già nel decennio precedente, infatti, con pellicole come Il braccio violento della legge, Il lungo addio, Squadra speciale, Gli amici di Eddie Coyle e il ciclo dell’Ispettore Callaghan – per citarne alcune – Hollywood seppe rimescolare le inerzie di uno dei generi di intrattenimento più popolari, offrendo riletture sporche e dissacranti. A Hill e alla strana coppia Nick Nolte-Eddie Murphy – uno di chiara formazione drammatica senza ancora un vero successo al botteghino, l’altro stella emergente comica del Saturday Night Live all’esordio assoluto sul grande schermo – si deve invece la nascita di un nuovo sottogenere: il buddy cop.
Ecco, senza 48 ore oggi non avremmo mai potuto godere di film come Tango & Cash, Resa dei conti a Little Tokyo, Point Break – Punto di rottura (di cui potete leggere qui), ma soprattutto di Arma letale e di Beverly Hills Cop sempre con Eddie Murphy al centro della scena e che di 48 ore è un po’ il figlio spirituale. Laddove però nel film di Martin Brest appare una chiara identità filmica nella gestione delle componenti cop-crime e comedy tipiche del buddy-cop, in 48 ore di Hill, proprio perché dal concept sperimentale e dalla grammatica filmica in divenire, appare tutto più incerto e poco armonico, squilibrato, sullo sfondo di una San Francisco notturna e fumosa dagli antri bui.
Un tentativo che vede, accanto a una forte e solida componente cop-crime dalle atmosfere dense e avvolgenti, con tanto di topos cardine della pistola smarrita che uccide (dichiaratamente rievocativo di Cane randagio di Akira Kurosawa) alla base del racconto, piccole (ma brillanti) contaminazioni comedy offerte dagli scambi incisivi, ficcanti ma mai sopra le righe, della coppia Nolte-Murphy che del buddy di 48 ore è un po’ il cuore e l’anima nell’unire quel Jack Cates – poliziotto veterano super-competente ma dai metodi bruschi e poco incline alle buone maniere – e l’avanzo di galera dal cuore d’oro Reggie Hammond dalla fiducia traballante nelle forze dell’ordine. Nel mezzo c’è la regia fluida di Hill, il ritmo veloce e quel modo di fare cinema in disuso capace di raccontare grandi storie dalle grandi emozioni in un minutaggio contenuto: 96 minuti di risate, dramma, spacconeria e violenza.
Un film (im)perfetto ma dal fascino senza tempo che in origine, tuttavia, sarebbe dovuto essere ben diverso. L’idea originale per 48 ore venne al produttore Lawrence Gordon agli inizi degli anni Settanta. Si immaginò cosa sarebbe successo se la figlia del governatore della Louisiana fosse rapita da un criminale talmente senza scrupoli da minacciarla di farla saltare in aria entro quarantotto ore. A quel punto, un poliziotto problematico e caotico, l’eroe di turno, avrebbe fatto squadra con l’ex-compagno di cella del criminale. A detta di Hill già nel 1975, nel pieno della lavorazione de L’eroe della strada con Gordon in produzione e Roger Spottiswoode in sceneggiatura, si iniziò seriamente a parlare di 48 ore. Nel giro di poche settimane, fu buttato giù uno script da presentare alla Columbia Pictures.
Il progetto passò così alla Paramount nel 1978 che immaginò Clint Eastwood come insolito-ma-perfetto criminale buono/spalla del poliziotto-eroe. Hill, dalla sua, rimaneggiò lo script ma non credeva fosse quella la via da seguire: «Quando consegnai lo script dissi alla Paramount che non pensavo che avrebbe funzionato. L’idea migliore sarebbe quella di far fare a Richard Pryor il criminale e avere qualcuno come Eastwood come poliziotto». Non se ne fece nulla. Eastwood optò per Fuga da Alcatraz. Pryor tornò nella comfort-zone della comedy dopo la parentesi drammatica di Tuta blu. 48 ore rimase così nel limbo produttivo per almeno due anni. Questo fino al 1980, anno in cui la partita si riaprì.
Gordon disse a Hill che la Paramount avrebbe realizzato 48 ore se avesse approvato Nolte come Cates: «Credevano che l’accoppiata Nolte e un buon attore nero sarebbe stata un grande successo commerciale». Secondo Hill a cambiare le carte in tavola fu proprio Pryor e la sua irresistibile ascesa tra i Grandi di Hollywood: «Quello che è successo è molto semplice. Pryor è diventato una Stella e questo ha cambiato per sempre la percezione degli Studios». Lì per lì la Paramount immaginò Gregory Hines come spalla, poi l’intuizione. L’allora fidanzata di Hill, l’agente Hildy Gottlieb, raccomandò il suo cliente, nientemeno che il giovane Eddie Murphy. Il resto è storia, e che storia: quarant’anni di retaggio inscalfibile che degli anni Ottanta è gemma filmica e piccolo-ma-grande capolavoro.
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