MILANO – Da un punto di vista puramente temporale – siamo nel 1969 – Il Grinta – lo trovate su Paramount+ e CHILI – appartiene all’epoca del western crepuscolare, ovvero la maniera dotta di chiamare i film di genere in cui regista e spettatori hanno smesso di credere negli eroi. Un momento storico che nel western si tradusse in una serie di pellicole molto diverse tra loro, mosse dalla medesima vena antieroica e antitradizionalista, dalle dinamiche geometriche guidate dai bassi istinti dello spaghetti western, passando per l’ironia sfacciata di Butch Cassidy, fino alla tremenda violenza dei film di Peckinpah e al revisionismo di Soldato blu e Piccolo grande uomo. Un decennio – compreso tra la metà degli Anni ’60 e i primi Anni ’70 – in cui era irrituale e totalmente fuori moda girare un western che non contenesse qualche elemento sovversivo rispetto agli schemi tradizionali del genere.
Con Il Grinta però Hathaway compie un’operazione in netta controtendenza, una sorta di critica-alla-critica che per certi versi ha del nostalgico e del reazionario, ma che ha anche l’arguzia di usare gli stessi strumenti dei decostruttori del western – con note autoironiche e grottesche – per proporre un film ordinario e tradizionale nella struttura, rivendicando la grandezza del genere. L’uomo che porta sulle spalle il peso di tutto questo non può che essere, ancora una volta, John Wayne. Come nella vita era stato un fervente conservatore e difensore dei “veri valori americani”, le sue posizioni si sovrappongono qui all’industria cinematografica, in cui l’attore veste i panni dell’esponente di spicco della vecchia guardia che sembra avere delle rimostranze nei confronti delle nuove generazioni.
Il protagonista assoluto è lui, Ruben Rooster Cogburn, detto Il Grinta, un uomo gigantesco e monocolo per via di un incidente durante la Guerra Civile per conto dei sudisti. Il Grinta è un vecchio avventuriero senza scrupoli che dopo il conflitto ha trovato lavoro come sceriffo federale ed è diventato famoso per essere il più temibile dei colleghi, soprattutto a causa del suo vizio antico e mai domato di sparare per primo, senza farsi troppi problemi e senza badare a quelle leggi per lui cavillose e fastidiose, quelle che in uno stato di diritto pretendono, ad esempio, di porre un confine tra legittima difesa, eccesso di legittima difesa e omicidio deliberato.
Come disse benissimo Tullio Kezich ai tempi: «Lo sceriffo che ammazza senza preavviso stabilisce una continuità storica tra la bandiera nera di Quantrell e i berretti verdi nel Vietnam», e questa continuità è la controprova del fatto che l’orgoglio classicista presente in questo film ha anche una connotazione politica e si oppone alla contestazione, in difesa di quei soldati americani dal grilletto facile che per la destra conservatrice restano eroi degni di rispetto, il cui coraggio pone le proprie radici nei valori peculiarmente americani esaltati dal western vecchio stile.
Impossibile, a ben vedere, separare l’aspetto politico (che visto oggi ha evidenti tratti di Trumpismo) dalle considerazioni cinematografiche, perché in questo film Wayne e il suo corpo non solo incarnano un certo tipo di conservatorismo, ma anche, e contemporaneamente, il western stesso che ne fu il portatore: presentato ironicamente come un ubriacone fisicamente impresentabile, vecchio e scorbutico, grossolano nei modi e nel senso dell’umorismo, maschilista, violento, e legato al denaro, Il Grinta è in realtà il padre nobile fondatore della nazione, un padre forte in cui la giovane fanciulla Mattie (l’energica Kim Darby) trova l’unica soluzione ai suoi problemi.
La società (con un chiaro parallelismo critico con il presente) è presentata come un mondo debole e inconcludente, società autoriferita incapace di dare giustizia a un’orfana e che, quindi, avrebbe perso la funzione primaria, cioè quella di difendere i buoni dai cattivi. E in questa situazione i deboli, la brava gente, invocano nuovamente quel tipo di uomo bistrattato dai benpensanti e dalla sinistra intellettuale, un signore pratico e affidabile (il titolo del romanzo da cui è tratto è Un vero uomo per Mattie Ross), forse un po’ duro e con mille difetti, ma le cui azioni sono in fondo guidate da buoni sentimenti, per difendere i quali, spesso, le buone maniere, non bastano. Insomma, un uomo che arriva dall’epopea del western anni Quaranta.
Comunque la si pensi sul ’68, sul Vietnam e sul rapporto tra western classico e le sue rivisitazioni, di questo film resta certamente il ricordo di un attore grandioso come Wayne, nella sua interpretazione più significativa (non a caso il suo unico e tardivo Oscar, prima di quello alla carriera), una buona colonna sonora e un intreccio ben costruito e gestito ottimamente da Hathaway, capace di alternare dialoghi serrati a paesaggi mozzafiato, e lunghe e lente camminate a cavallo con momenti di vera e propria azione.
Da segnalare, in ruoli minori, due attori che avrebbero poi dato molto al cinema hollywoodiano di lì a poco come Robert Duvall e Dennis Hopper. Tutti e due, ironia della sorte, rappresentano una figura di cattivo cara a questo genere di film, ovvero i delinquenti d’onore, quelli con cui si può trattare e che in qualche modo restano uomini, seppur dalla parte sbagliata, contrapposti alla figura meno nobile dell’infame Tom Chaney (Jeff Corey), che invece è totalmente privo di morale, per cui il virtuoso eroe del west può anche non avere pietà. Se volete fare un esperimento, guardate prima Il Grinta di Wayne e subito dopo quello di Jeff Bridges diretto dai Coen.
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Qui sotto potete vedere il trailer originale del film
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