ROMA – «Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda». La battuta pronunciata dall’editore dello Shinbone Star in chiusura di racconto de L’uomo che uccise Liberty Valance, capolavoro western di John Ford del 1962, sembra quasi agire retroattivamente caricando di valore la ratio filmica dell’opus fordiano nella sua interezza: prendere pezzi di storia americana per consegnarli all’immortalità cinematografica compenetrando leggenda e realtà al servizio della narrazione. Questo è il cinema di John Ford.
Del resto il genere Western ha da sempre avuto un’innata capacità d’essere portatore sano di valori. Racconti di carattere popolare che nella costruzione di narrazioni totalizzanti in cui convivevano tante anime dal differente sapore scenico vedevano adagiate cariche valoriali benevoli che finivano con il caricare di significato la caratterizzazione dei propri protagonisti. La codifica del topos fordiano del viaggio – della cui inerzia si servirà poi Akira Kurosawa per dar forma ai suoi jidai-geki – diventa così per Ford esplicitazione dei valori di cui il racconto si fa portatore, pietra fondante della grammatica filmica del genere, nonché la ragione dietro alla massima di André Bazin: «Il Western è il cinema americano per eccellenza».
Ecco, in una simile ottica, L’uomo che uccise Liberty Valance rappresentò un evidente elemento di rottura nella filmografia fordiana. La dicotomia cowboy-indiani e il classicismo del viaggio lineare sullo sfondo delle Monument Valley del 1956 di Sentieri selvaggi e del suo respiro speranzoso e amorevole lasciano il posto, sei anni dopo, a un L’uomo che uccise Liberty Valance dal respiro corto e nichilista avvolto in un bianco e nero freddo, lugubre, finissimo e crepuscolare con cui salutare un’era filmica leggendaria attraverso una narrazione scenicamente minuta, intima nel suo conflitto quasi da noir consumato, ma grande nei valori in essa custoditi (e poi sprigionati).
Un’opposizione quindi, ma anche una presa di posizione e di coscienza. Catarsi filmica che troverà la piena redenzione nel “benevolo” Il grande sentiero del 1964, mossa dal catastrofico terzo atto de Cavalcarono insieme del 1961. Un climax violento, straripante, non tanto sanguinoso ma dagli intenti brutali: lo zero assoluto del ruolo filmico dei Comanche nel cinema fordiano. Un terzo atto che soprattutto andò in aperto contrasto con la realtà sociale dell’epoca: la crescente violenza contro la comunità afroamericana. Ford ne prenderà immediatamente le distanze definendo Cavalcarono insieme come: «La peggior schifezza che ho fatto in vent’anni».
Non solo meriti artistici però. L’uomo che uccise Liberty Valance è notoriamente riconosciuto come una delle produzioni peggio gestite di quel decennio. Acquistati i diritti del romanzo omonimo di Dorothy M. Johnson da Ford per appena 7.500 dollari. A seguito infatti del flop del mitologico e atipico I due volti della vendetta (prima e unica regia di Marlon Brando dopo l’abbandono di Stanley Kubrick, scritto da Sam Peckinpah) la Paramount non era esattamente propensa a dar fiducia a Liberty Valance. Il Western era ormai un genere esaurito. Maestri come Budd Boetticher, Delmer Daves, André De Toth, e Anthony Mann erano prossimi al ritiro. Le cose andarono comunque avanti ma si sentiva che mancava una certa armonia di base. Alla Paramount non piaceva affatto il taglio poco sofisticato ed eccessivamente sentimentale delle ultime opere di Ford (Soldati a cavallo, I dannati e gli eroi, Cavalcarono insieme).
La scelta fotografica del bianco e nero divenne così il seme della discordia. Secondo alcuni critici dell’epoca serviva per attenuare le impietose carte di identità di Stewart e Wayne (entrambi ultracinquantenni). Alcune voci dichiaravano come la Paramount imponesse il colore mentre Ford spingeva per il bianco e nero così da dare maggiore intimità alla cifra drammatica del racconto: «Per una buona storia drammatica preferisco di gran lunga il bianco e nero. Si può dire che sono antiquato, ma la vera fotografia è in bianco e nero». Una terza voce – al contrario – affermava fosse invece che fu la Paramount ad imporlo per via di un sensibile taglio dei costi di lavorazione dopo le perdite subite dall’infelice Western brandiano. È lecito pensare ad oggi come la scelta del bianco e nero in L’uomo che uccise Liberty Valance fosse dipesa in realtà dalla totalità dei fattori piuttosto che dal singolo.
Ford si trovò in ogni caso a ridimensionare il progetto accettando condizioni produttivamente avverse. Il risultato fu tanto malumore, tossicità, e schermaglie con John Wayne di cui si ha testimonianza dalle parole di Lee Van Cleef: «Ford fu un vero bastardo con Wayne. Lo maltrattava, lo definiva un attore schifoso. Non voleva che Duke pensasse che gli stesse facendo un qualche favore». Il motivo di tanta aggressività? Il recente accordo di Wayne con la Paramount. Dopo I comanceros di Michael Curtiz era diventato uno dei loro volti di punta. Semplici scaramucce da set insomma e più per giochi di potere. Nulla che potesse anche solo scalfire un’amicizia quarantennale. L’anno successivo i due lavoreranno assieme per l’ultima volta nel ben più modesto e scanzonato I tre della croce del Sud. Una disimpegnata vacanza cinematografica a cui si unirà anche Marvin come co-protagonista dopo le cattivissime gesta da Liberty Valance.
In ogni caso è risaputo che Wayne non piaceva affatto il ruolo di Tom Doniphon. Non ne capiva le ragioni e lo considerava ambiguo: «La perversione e la corruzione sono mascherate dall’ambiguità. Non mi piace l’ambiguità. Non mi fido dell’ambiguità». Da sempre abituato ad essere al centro della scena nelle pellicole Western, la cosa che proprio mandava ai matti Wayne era che Doniphon fosse il deuteragonista. Non riusciva a capacitarsi che James Stewart e Lee Marvin avessero le scene migliori mentre lui si trovava relegato sullo sfondo. Non la pensava così Ford che in un’intervista rilasciata a Peter Bogdanovich nel 1978 affermò come: «In effetti Wayne recitò la parte del protagonista. Stewart aveva la maggior parte delle scene ma era Wayne il personaggio centrale, la ragione di tutto quanto».
E infatti è proprio sullo sfondo e nelle zone d’ombra delle sfumature caratteriali che vive la grandezza di un Doniphon reso leggenda da un magistrale Wayne simulacro dei valori anacronistici del vecchio West – e di riflesso – della crepuscolare essenza de L’uomo che uccise Liberty Valance. Ma è solo di una metà che parliamo. L’altra è tutta codificata nell’aura valoriale del moderno e giusto Ransom Stoddard a cui Stewart conferisce con la sua presenza scenica un certo sapore capriano da disilluso Jefferson Smith (Mr. Smith vola a Washington).
Ecco, nonostante le dicerie e le perplessità produttive, a parlare per L’uomo che uccise Liberty Valance è il suo sessantennale strepitoso retaggio. Il ritorno al bianco e nero a dodici anni dal paterno Rio Bravo è la favola amara del sogno americano e di un Mito della Frontiera che dopo essere divampato nel fuoco della visione romanticamente shakespeariana di Sfida infernale vede spegnersi in una coperta di ridimensionamento nichilista che nel permearsi del contrasto tra l’agire legale e la legge della strada, guarda alla fine del West e al contemporaneo incedere del progresso e della civilizzazione con perplessità e sgomento. Le risposte alle domande rispettivamente in apertura e chiusura di racconto – Chi era Tom Doniphon?/Chi ha ucciso Liberty Valance? – vanno così a segnare l’inizio della fine del Western classico in un’opera intrisa di malinconia e dallo sviluppo semplice e concreto come fosse una ballad.
Per un ultimo guizzo registico con cui il Maestro Ford celebra il “genere americano per eccellenza“ mitizzando l’aura mitologica dei suoi eroi Wayne-Stewart tramite presentazioni e ingressi scenici da leggenda per poi ricodificarli secondo parametri moderni-crepuscolari così da metterli dolorosamente di fronte alla fine del proprio tempo. Un tramonto che vede L’uomo che uccise Liberty Valance sprigionare una carica malinconica d’elegia raffinata che tra enigmatici trielli popolati di segmenti narrativi colorati e temporalmente digressivi e la necessità di spalancare le porte al domani vede infine Ford “costretto” a lasciare il passo a nuove, giovani, e fresche letture autoriali: la rivoluzione-Spaghetti di Sergio Leone, la contro-riscossa americana de Il mucchio selvaggio di Peckinpah, la sacralità registica di Clint Eastwood, l’unico, vero, degno erede della tradizione fordiana.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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