ROMA – «È come baciare uno specchio: ti piace quello che vedi, ma non è divertente. È un film freddo, una storia di fantasmi irsuti, un esercizio di stile realizzato con un certo disinvolto disprezzo pubblico. L’ho visto due volte sperando di dargli un senso. Non ne ha. Riguarda il design, non il cinema. Due pollici in giù». Così si espresse l’eminente Roger Ebert del Chicago Sun-Times a proposito di Strade perdute di David Lynch (su Rarovideo Channel che trovate sia su Prime Video che su The Film Club). Presentato al Sundance il 24 gennaio del 1997 e uscito in Italia il 5 giugno del 1998, il film in sala incassò poco meno di 4 milioni di dollari in tutto il mondo al box-office. E non per i «Due pollici in giù», sia chiaro, quelli fecero ridere Lynch al punto da affermare: «Sono altri due ottimi motivi per andare al cinema a vederlo».

Di tutti i film per ricordare Lynch e la sua pura arte cinematografica, è forse una delle migliori scelte possibili. Strade perdute è un neo-noir contaminato da elementi di espressionismo tedesco e New Wave francese in un sapore variegato tra l’horror e il thriller psicologico che nel riecheggiare al modernismo di capisaldi come Detour, Un bacio e una pistola e La donna che visse due volte, vede Lynch intessere una fuga psicogena di identità tra il reale e l’irreale, l’onirico e l’astratto. Il tutto reso nella forma ciclica di un nastro di Möbius narrativo che il critico culturale Slavoj Žižek avrebbe poi spiegato così: «La circolarità di Strade perdute è analoga a quella di un processo psicoanalitico. C’è – come in tutti i film di Lynch – una frase chiave sintomatica che ritorna sempre come messaggio insistente, traumatico e indecifrabile e c’è un loop temporale, come in analisi…».

Il motivo di una simile chiave di lettura? A detta di Žižek perché il protagonista Fred Madison (interpretato da Bill Pullman) all’inizio non riesce a incontrare il sé ma alla fine è in grado di pronunciare consapevolmente il sintomo come proprio. Come a indicare che la follia di Fred è talmente potente che anche la fantasia dissociativa in cui vede sé stesso come quel Pete Dayton (Balthazar Getty) dai ricordi e dalla personalità differenti, finisce con il dissolversi in un incubo: «Una fuga inizia in un modo, prende un’altra direzione e poi torna all’origine. Quindi, sì, si riferisce alla forma del film» disse Lynch al riguardo. Secondo Žižek nella struttura bipartita di Strade perdute vi è da leggersi anche un’opposizione: «L’opposizione di due orrori: l’orrore fantasmatico dell’universo noir da incubo di sesso perverso, tradimento e omicidio e la disperazione della nostra vita quotidiana grigia e alienata di impotenza e sfiducia».

Chi invece non muta mai se non nel colore di capelli è Patricia Arquette tra il rosso scuro di Renée Madison e il biondo dorato di Alice Wakefield. Quintessenza della femme fatale postmoderna resa da Lynch come il perfetto anello di congiunzione tra i due mondi narrativi che la circolarità psicoanalitica di Strade perdute lascia infine mescolarsi e compenetrarsi tra coni d’ombra narrativi e suggestioni solo apparentemente inspiegabili. E non solo. Perché l’opera di Lynch va vista in un un’ottica più ampia. Quella del processo di ricodifica lynchiano dell’immaginario noir che tra Velluto Blu e Twin Peaks, passando per I segreti di Twin Peaks, Cuore selvaggio, Mulholland Drive e Inland Empire, ha visto Lynch asciugare progressivamente la tipica e coerente linearità del cinema noir mescolandovi sempre più elementi surreali e nonsense sino a destrutturarne del tutto le componenti lasciandole navigare in un mare di fiabesca e incerta a-linearità.

Nel mezzo – cronologicamente oltre che in via puramente tematica – c’è proprio Strade perdute che dell’excursus è il decisivo punto di svolta per cui Lynch ha ragionato in modo che il sync tra suono e immagine fosse non solo cognitivo ma di supporto alla narrazione: «Ogni suono deve supportare quella scena è ingrandirla. Una stanza è, diciamo, nove per dodici, ma quando introduci il suono ad essa puoi creare uno spazio gigantesco». Strade perdute che in origine Lynch avrebbe voluto in bianco e nero. Idea scartata poi per via dei rischi economici che sarebbero potuti derivare da un’opera di suo già di difficile fruizione. Eppure Lynch girò il film in modo da presentare differenti livelli di oscurità e ben poche scene diurne, a detta del DoP Peter Deming: «Ciò che volevo ottenere era dare la sensazione che qualsiasi cosa potesse emergere dallo sfondo, sotto la superficie».

Da dove nasce però l’intuizione alla base del film? Facciamo un passo indietro. Perché fu proprio durante la lettura di Gente di notte di Barry Gifford del 1994 che Lynch si imbatté nella visione di Strade perdute. Nello specifico di una pagina del romanzo, a detta di Lynch, popolata delle parole Lost e Highway. La sua mente geniale fece il resto. E lo conosceva bene Gifford avendovi già collaborato per Cuore selvaggio, tratto dall’omonimo romanzo del 1990. I due decisero di scrivere lo script assieme pur avendo idee totalmente opposte di ciò che sarebbe dovuto essere Strade perdute. Concept che dalla sua Lynch aveva già accarezzato durante la lavorazione di Fuoco cammina con me e di cui immaginò giusto i contorni narrativi: «Una videocassetta e una coppia in crisi», il cuore della prima macro-sequenza, fin quando Fred Madison non sarà consegnato al braccio della morte.

Sequenza che a detta di Lynch fu indirettamente – e incredibilmente – ispirata nientemeno che dal Caso O.J. Simpson: «Quando Barry Gifford e io stavamo scrivendo lo script di Strade perdute, ero quasi ossessionato dal processo a O.J. Simpson. Io e Barry non ne parlammo mai esplicitamente, ma credo che il film sia in qualche modo connesso a quella vicenda» e in particolare dalla capacità di Simpson di condurre la sua vita in seguito. Il vero motivo oltre al clamore mediatico? L’uxoricidio al centro della vicenda legale, esattamente come parte della narrazione di Strade perdute. Ironicamente, e in questo il cinema – come la vita – sa essere spietato a volte, quel Robert Blake che Lynch scelse personalmente come soprannaturale Uomo Misterioso verrà arrestato nel 2002 per l’omicidio della seconda moglie Bonny Lee Bakley che di matrimoni, invece, ne ebbe – escluso quello con Blake – ben nove!

Torniamo a noi, perché a quel punto del processo creativo, Lynch e Gifford si resero conto che doveva avvenire qualcosa in Strade perdute. Una trasformazione, qualcosa che desse lo slancio al racconto. Svilupparono così un’altra storia che avrebbe avuto diversi punti in comune ma anche differenze con la prima, quella di Pete Dayton per cui Getty non ebbe alcuna idea di quello che potesse essere il suo naturale sviluppo, o per dirla con le sue parole: «Parte della tecnica di David è quella di far indovinare i suoi attori così che possa crearsi una certa atmosfera sul set». Non ultimo una nota biografica. Perché il celebre momento topico di Strade perdute – «Dick Laurent è morto» – non nasce dal nulla, ma da un episodio analogo nella forma e nel contenuto, vissuto da Lynch anni fa.

Una mattina presto venne svegliato dal citofono. Avvicinatosi all’apparecchio sentì un uomo pronunciare l’iconica frase. Sorpreso, si avvicinò alla finestra ma non vide nessuno. A suo dire, per via dell’omonimia con il vicino di quartiere – l’attore e doppiatore David Lander – la persona in questione aveva semplicemente sbagliato casa e, resosene conto troppo tardi, aveva preferito darsela a gambe. Verità? Leggenda? Solo Lynch riuscì a modificarne l’inerzia avvolgendola di un cupo e straniante silenzio così da renderla una delle più incredibili e suggestive sequenze che il cinema anni Novanta ricordi e – di riflesso – consegnarlo di diritto all’immortalità del tempo, oggi come ieri, venticinque anni dopo. Strade perdute, una magnifica espressione del genio lynchiano: Un film da rivedere.
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