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Mulholland Drive | L’enigma che David Lynch riuscì a trasformare in un capolavoro

Ma cosa rimane oggi a vent’anni dall’uscita dell’opera di David Lynch? Molto, moltissimo…

Sogno o realtà? David Lynch tra Naomi Watts e Laura Harring.

ROMA – «Esterno Notte. Hollywood Hills, L.A. Darkness. Distant sounds of freeway traffic. Then the closer sound of a car. Its headlights illumine an oleander bush and the limbs of an Eucalyptus tree. Then the headlights turn; a street sign is suddenly brightly lit. The words on the sign read: Mulholland Drive». Nel 2016, un sondaggio indetto dalla BBC chiedeva a 177 critici di oltre trenta Paesi di individuare il più grande film del (primo scorcio di) XXI secolo. Sul gradino più in alto di un podio che vedeva – in quest’ordine – In the Mood for Love e Il petroliere, c’era proprio quel Mulholland Drive che David Lynch ebbe poeticamente a definire come: «Una storia d’amore nella città dei sogni». Eppure, ironia della sorte, il più grande film del XXI secolo ha rischiato di non diventare mai un film. Come? Seguiteci in questa nuova puntata di Longform.

L’inizio della sceneggiatura di Mulholland Drive.

La prima volta che sentiamo (indirettamente) parlare di Mulholland Drive – lo trovate su CHILI – è nella prima metà degli anni Novanta. Nel pieno del turbinio produttivo della prima stagione de I segreti di Twin Peaks, Lynch propose alla ABC uno spin-off che avrebbe messo al centro del racconto il personaggio di Audrey Horne (Sherilyn Fenn) e il suo sogno di diventare attrice ad Hollywood. Non è ben chiaro se questo curioso e narrativamente innovativo tie-in avrebbe preso piede tra la prima e la seconda stagione de I segreti di Twin Peaks o dopo la seconda. Quel che è certo però è che l’arco narrativo che Lynch aveva in mente per Audrey sarebbe stato non dissimile da quello poi disegnato attorno all’aura scenica di Betty Elms/Diane Sawyer di Naomi Watts. Cancellata I segreti di Twin Peaks dopo una seconda stagione con più ombre che luci e un vertiginoso calo d’ascolti da perdita d’interesse del pubblico, l’idea del tie-in twinpeaksiano fu cestinata ma non accantonata.

David Lynch tra Naomi Watts e Laura Harring sul set.

Sul finire del decennio, e all’indomani dei successi di Strade perdute e Una storia vera, Lynch preparò il terreno per il grande ritorno sul piccolo schermo. Nel 1999, in accordo con la Touchstone Television che ne finanziò il progetto, Lynch girò un pilota di serie per la ABC della durata di 90 minuti. In pratica un film per la televisione. Il titolo? Mulholland Drive. Tony Krantz, che de I segreti di Twin Peaks fu il responsabile dello sviluppo, era entusiasta all’idea di lavorare nuovamente con Lynch. E lo stesso Lynch, forte della fiducia del network, riuscì a vendere Mulholland Drive basandosi unicamente su poche linee guida di trama: l’incidente automobilistico di Rita, la sua amnesia, una borsa contenente 125.000 dollari in contanti, una chiave blu, e Betty che cerca di aiutarla nel venirne a capo. E il resto? Come disse Lynch ai curiosi executives della ABC: «Se volete che ve lo dica dovete prima acquistare il pitch».

Lynch con Justin Theroux prima di una scena.

Ecco, qui si entra nella parte imbarazzante della storia e di questa puntata di Longform: il pilota di Mulholland Drive fu barbaramente cestinato dalla ABC. La valutazione del dirigente incaricato ruotò intorno ai termini noioso, a-lineare, e monodimensionale. Puntò infine il dito su Naomi Watts (Betty) e Laura Harring (Rita) definendole troppo in là con gli anni per diventare star TV. Come raccontato però da Lynch in In acque profonde (in Italia edito da Mondadori) il dirigente incaricato vide il pilota in una situazione ambientale decisamente particolare: alle 6 del mattino, mentre faceva colazione. Una cosa è certa: il pilota di Mulholland Drive era solo una goccia della complessità del racconto. Lo stesso Lynch era consapevole di come la TV non fosse il medium più adatto per la sua opera: «ABC lo odiava. Sono d’accordo però quando dicevano che era troppo lento, ma sono stato costretto a macellarlo perché avevamo una scadenza. Ha perso consistenza, scene, e sottotrame. […] Ho un debole per le storie continuative. Puoi andare in profondità e aprire i confini del mondo, ma ci vuole tempo per farlo».

Naomi Watts in ascolto religioso.

Quando tutto sembrava indicare un destino malevolo, ecco la svolta. Affascinato dall’idea alla base del pilot, il produttore Pierre Edleman solleticò l’interesse di StudioCanal che – dopo un anno di trattative serrate – finanziò la conversione da pilota a lungometraggio. Lynch, in verità, era parecchio restio all’idea di riprendere in mano Mulholland Drive. Una sera però, nel pieno delle trattative, ebbe un’illuminazione: «Sono arrivate le idee ed è stata un’esperienza bellissima. Tutto è stato visto da un’angolazione diversa. Ora, guardando indietro, vedo che Mulholland Drive ha sempre voluto essere così. C’è voluto solo questo strano inizio per farlo diventare quello che è». È solo grazie alla forma narrativa compiuta tipica del medium-cinema infatti che Mulholland Drive è passato da progetto abortito pigramente ad elemento strategico per la comprensione degli intenti di destrutturazione lynchiana della tipica linearità narrativa. Un processo, di cui Eraserhead era solo un onirico assaggio acerbo, che vide un’evoluzione di pari passo con l’espansione graduale dell’aura del Lynch-autore.

Un omaggio al film in versione fumetto di Helena Janecic.

Laddove tra Velluto Blu, I segreti di Twin Peaks, e Cuore selvaggio, Lynch procede contaminando le abituali estetiche del genere noir di elementi grotteschi e surreali pur mantenendo una certa linearità di fondo, è da Strade perdute a Twin Peaks passando proprio per Mulholland Drive e Inland Empire, che Lynch agisce sin dentro la struttura dell’organismo-racconto. Narrazioni complesse su più piani dalla sempre più marcata a-linearità da nastro di Möbius alimentate da doppelgänger caratteriali e digressioni temporali, distorsioni visive e manipolazioni sonore, depistaggi e suggestioni registiche. Tutti elementi generanti impareggiabili flussi di coscienza dove la coerenza narrativa e la comprensione del racconto cedono il passo all’aspetto esperienziale più puro dell’opera audiovisiva elevata da Lynch a forma d’arte.

Il maestro e il cast: Lynch con Watts, Harring e Theroux.

«Int. Aunt Rush’s apartment. Day: Come on. It’ll be just like in the movies. We’ll pretend to be someone else» . Tra le righe di questa linea rivolta da Betty a Rita, Lynch prefigura il fato delle due protagoniste rivelando l’unicità della sua opera. Rapportato alle altre produzioni di Lynch, qualcosa sembra funzionare meglio in Mulholland Drive. Il caos narrativo è come regolato da una silenziosa armonia che nel tessere le fila dell’intreccio va a generare dei vuoti di significato solo apparentemente enigmatici. La graduale risoluzione del conflitto lungo il terzo atto finisce con il dar senso ad ogni momento narrativo, perfino il più insospettabile e all’apparenza insignificante. In attesa di risposte, Lynch gioca con lo spettatore guidandolo in una Los Angeles in bilico tra illusione (o forse sogno?), e realtà, popolata di prefigurazioni testuali ed elementi di meta-cinema (ne esce un ritratto impietoso e grottesco di Hollywood e delle sue inerzie produttive), colorata di topos classici del cinema noir e citazioni a Il mago di Oz, Gilda, e Viale del tramonto, infine arricchita di senso da proiezioni psicologiche ruotanti attorno all’Io e al Super-Io freudiano.

Foto da set: Lynch in posa con Bonnie Aarons.

Elemento quest’ultimo su cui Lynch ha voluto far chiarezza nonostante la sua avversione verso le spiegazioni: «Parla dell’ego e della sofferenza nel paragonarsi agli altri. Penso che per essere davvero liberi e felici occorra uccidere l’ego: secondo la mia visione è questo il significato del cadavere nel finale. Ma, come ho detto, è un viaggio che lo spettatore stesso deve compiere nella propria mente. Non verrà servito su un vassoio d’argento. È per questo che penso che come opera d’arte Mulholland Drive sia senza tempo». Tra i piccoli indizi contenuti nel commento audio del DVD e una fotocopiata allegata a ogni set di bobine per la sala contenente specifiche richieste per i proiezionisti, è come se Lynch avesse voluto coccolare Mulholland Drive in ogni dettaglio. Di sicuro il destino ha saputo ripagare i suoi sforzi visto che a Cannes Lynch vinse per la regia (ex-aequo con Joel Coen per L’uomo che non c’era). Un’opera unica Mulholland Drive, senza tempo, e dalla tripla anima vitale: una suggestione twinpeaksiana mancata, un pilota di serie incompreso e respinto frettolosamente, ma soprattutto – ancora oggi dopo vent’anni – il più grande film del XXI secolo.

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