ROMA – Di tutti i modi possibili con cui ricordare David Lynch potrebbe sembrare il titolo meno adatto. Non fosse altro perché il suo opus filmico annovera opere del calibro di Velluto Blu, Strade Perdute, Mulholland Drive e Inland Empire, ma The Elephant Man ebbe dalla sua il merito di lanciare Lynch nel cinema che conta. Un nuovo esordio dopo quello sperimentale underground (e magnifico) di Eraserhead, con una produzione solida e soprattutto un cast di stelle dalla sua parte. Perché in effetti, a conferma che non si è stati David Lynch per caso, quale regista può dire di avere avuto artisti come Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, Freddie Jones e John Gielgud per la propria opera seconda? Merito dell’executive Mel Brooks e con lui della Brooksfilm fondata alla fine degli anni Settanta, che scommise proprio su Lynch dopo essere rimasto sconvolto dalla visione di Eraserhead.

A proposito, no non è affatto un caso di omonimia. Parliamo, infatti, dello stesso Brooks di Mezzogiorno e Mezzo di Fuoco e Frankenstein Junior che omise deliberatamente il suo nome dai titoli di testa perché sapeva perfettamente che altrimenti il pubblico – e con lui gli stessi addetti ai lavori aggiungiamo noi – avrebbero viste le proprie aspettative falsate. Tutto può essere The Elephant Man meno che una commedia. Piuttosto il più doloroso, tragico ed esageratamente struggente film di quelli realizzati da Lynch. E forse anche tra i meno personali, ma in cui è possibile già cogliere visioni ed elementi caratteristici del suo cinema. Come le sequenze surrealiste in apertura e chiusura di racconto – quest’ultima poi fatta rivivere nel successivo Dune – che se fosse stato per gli executives della Paramount Pictures non avremmo mai visto.

Dopo un test-screening privato chiesero a Brooks che venissero tagliate perché fuori fuoco rispetto alla tragicità del corpus filmico nella sua interezza. Non per il produttore Stuart Cornfeld, però, che disse loro: «Siamo coinvolti in un’iniziativa imprenditoriale. Abbiamo proiettato The Elephant Man per voi, per aggiornarvi sullo stato di tale iniziativa. Non fraintendete questo come se stessimo sollecitando il contributo di primitivi furiosi». Cornfeld che nella storia del film ebbe un ruolo cruciale. Al punto che senza di lui, oggi non saremmo di certo qui a celebrarne il retaggio, non in questa forma perlomeno. La nostra storia inizia, infatti, nel 1977 sul set di Alta Tensione di Brooks. L’executive Jonathon Sanger lavorava al film come assistente alla regia. Assunse una babysitter per i suoi figli che un giorno gli fece avere uno spec-script firmato dal suo fidanzato dell’epoca, Christopher De Vore, assieme ad Eric Bergnen.

Si intitolava proprio The Elephant Man e raccontava la storia vera-ma-romanzata di Joseph Merrick. Un uomo inglese nato a Leicester nel 1862 che fu colpito dalla Sindrome di Proteo in tenerissima età. Questa sviluppò in lui una spaventosa deformità che ne mutò drasticamente il corpo già all’età di cinque anni. Come se non bastasse il quadro familiare di Merrick era veramente drammatico. Morta la madre a undici anni, il padre – anch’egli di nome Joseph – si risposò in seconde nozze. La matrigna non accettò mai la deformità di Joseph-figlio mettendo il padre con le spalle al muro con un ultimatum: «O Joseph, o me». Merrick si trovò così in mezzo a una strada nemmeno che adolescente. Per sopravvivere si mantenne vendendo lucido da scarpe, subendo costantemente le beffe dei bambini del vicinato. Poi Londra, il freak show e l’incontro con il dottor Frederick Treves.

E da quel momento la vita di Merrick cambiò. La società londinese lo scoprì come un gentiluomo molto intelligente e colto. Amava leggere e recitare le scene delle pantomime che andava a vedere. Spesso concludeva la sua corrispondenza con i sostenitori citando un verso di Isaac Watts: «È vero che la mia forma è un po’ strana, ma biasimarmi è biasimare Dio. Potessi ricreare me stesso, non mancherei di compiacervi. Se potessi arrivare da un polo all’altro, o afferrare l’oceano con una spanna. sarei misurato dall’anima, la mente è lo standard dell’uomo». Non ci volle molto prima che la lettura del copione di The Elephant Man travolse del tutto Sanger, tanto da arrivare a consegnarla a Brooks che decise di produrlo. La visione di Eraserhead fece il resto: «Pensavo fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Fu un’esperienza purificante».

Sanger organizzò, infatti, un incontro con Lynch con la sola intenzione di provare a conoscere e comprendere l’uomo dietro le visioni oniriche di Eraserhead. Nel giro di pochi minuti Sanger accettò di produrre il suo nuovo film. Si intitolava Ronnie Rocket e riguardava: «L’elettricità e un tizio alto un metro con i capelli rossi» per usare le parole di Lynch. Ben presto, però, i due si resero conto che nessuno avrebbe finanziato loro il folle progetto. Lynch chiese così a Sanger di trovargli un altro film su cui mettere le mani: Vale a dire The Elephant Man. Che in realtà fu il primo dei quattro copioni che Sanger avrebbe voluto proporgli, ma che per cui Lynch rimase come estasiato al solo sentirne il titolo. L’ultima parola fu, però, di Brooks che dopo la visione di Eraserhead disse senza mezzi termini a Lynch: «Sei un pazzo. Ti amo, ci sei!».

Lynch che a quel tempo era inoccupato nel cinema. Lavorava, infatti, come operaio edile. E quando, con l’avvicinarsi dell’inizio delle riprese, fu poi costretto a trasferirsi a Londra, non aveva nemmeno i soldi per comprarsi un cappotto. Glielo regalò Brooks dopo che i primi giorni in terra inglese lo sorpresero con quel freddo insostenibile. Inoltre non riusciva minimamente a concepire l’idea di non poter mangiare un hamburger. Era uno dei suoi rituali ossessivo-compulsivi di quel periodo: un hamburger al giorno, ogni giorno, tutti i giorni, in un locale chiamato Bob’s Big Boy. Il risultato, manco a dirlo, fu una lavorazione insolita e inusuale. Il suo processo creativo si scontrò con la visione di Hopkins che ritenne Lynch un dilettante: poco professionale e inadatto per un film di quella portata. Al punto da arrivare a chiamare Brooks nel tentativo di farlo licenziare per sostituirlo con un regista più esperto.

Tipo Terrence Malick (I Giorni del Cielo) che in origine fu uno dei primi di cui si fece il nome per la regia di The Elephant Man. Nonostante le sue giustificate preoccupazioni sulla direzione che stava prendendo la produzione del film, Brooks scelse di difendere Lynch e tenerlo ben saldo sul timone di comando registico. Ritenne, infatti, che i manierismi unici di Lynch erano un vantaggio per la storia: «David riusciva a proiettare il proprio tumulto emotivo e sessuale nel suo lavoro e ci assale con i sentimenti da cui viene assalito». Lo stesso può dirsi per Hurt – che del ruolo di Merrick fu la terza scelta dopo Dustin Hoffman e Jack Nance –, che girò l’intero film nelle strazianti pause tra una ripresa e l’altra di I Cancelli del Cielo di Michael Cimino e che sopportò con enorme pazienza l’intero processo di make-up delle protesi.

Hurt – pensate – arrivava sul set alle 5 del mattino, sette-otto ore per l’applicazione del trucco, iniziava a girare le sue scene tra mezzogiorno e le dieci di sera e poi fino a mezzanotte per la rimozione. Dopo il primo giorno telefonò alla sua ragazza dell’epoca per dirle: «Penso che siano finalmente riusciti a farmi odiare la recitazione». Eppure ci dice veramente tutt’altro il risultato finito e una performance di peso, esplosiva e struggente come poche altre nella storia del cinema. The Elephant Man (lo trovate su MUBI) che parte con un primissimo piano di occhi e di una bocca. Una fotografia incorniciata e una dissolvenza con primo piano zoomato di un volto. Degli elefanti al rallenti che si avvicinano allo spettatore e l’incrocio delle sequenze in dissolvenza: Un barrito, una donna a terra in preda al terrore e una nube mista a vagiti. Silenzio, e poi fiamme.

Tra distorsioni sonore e suggestioni d’immagine apre così The Elephant Man, a metà tra l’onirico e il surreale, con Lynch che realizza incubi a occhi aperti tra barriti, urla e vagiti e un piano sequenza circense dove, nello sguardo di quel Dr Treves coscienza del racconto, si assimila quello dello spettatore. E con lui della cinepresa che si muove tra strani esseri in vitro, specchi distorcenti, freaks degni di Tod Browning e donne barbute, così da disegnare dialettiche sullo sguardo, tra curiosità e giudizio, risate di scherno e pianti. Fino a quella parete con su scritto The Terrible Elephant Man, qualcosa di troppo oltre per il comune sguardo umano, a cui Lynch pone un paletto: un divieto a osservare. Perché è sullo sguardo su cui riflette Lynch, sul ruolo dello sguardo umano in senso filmico e narrativo.

L’occhio celato dal camuffamento di Merrick, gli occhi vivi di Treves (e commossi, vi ricordate quel primo piano magnifico alla prima visione del corpo?), gli occhi degli sguardi indiscreti dei passanti, perfino dei medici che scrutano ogni imperfezione e malformazione fisica del corpo tumorale e coriaceo di Merrick. E l’occhio della regia di Lynch che ne permette il tutto osservando, filmando, piegando la volontà dello spettatore e della sua insita curiosità: giocare con la resistenza dell’individuo e la sua brama di visione deviandola attraverso filtri fotografici, fisici, panoramiche ed espedienti di montaggio. Almeno lungo tutto il primo atto, perché nel secondo cambia tutto in termini di approccio registico. Lynch compie un’inversione operando in limpidità e purezza disegnando piani medi permeati di dolore e dove la strabordante fisicità malata di Merrick fa da padrone. E con lui il suo riaprirsi alla vita.

Un’evoluzione caratteriale dosata, magistrale, raffinata, da bestia a umano in un susseguirsi di prime volte con cui ricostruirsi come individuo a cui Lynch oppone, però, i sempre più frequenti – e a valenza crescente – tentativi di demonizzazione dell’aberrazione di cui è suo malgrado portatore. È anche – di riflesso – uno straordinario film sull’assenza di empatia umana The Elephant Man. Perché all’accettazione della propria mostruosità e della ricostruzione di un’umanità fino a quel punto solo sognata, Lynch travolge Merrick di incubi a occhi aperti e chiusi, riportandolo al doloroso stato di freak sino a quell’urlo primordiale di auto-affermazione. Quel «No! Io non sono un elefante! Io non sono un animale, sono un essere umano! Un uomo… un uomo!» che è, nonostante la cattiveria e i tentativi di abbattimento dell’animo, la vittoria dell’uomo sul sabotaggio della società intorno, fino a quel finale minimale, semplice, ma di grande potenza narrativa.

«Vorrei poter dormire come la gente normale» che è quanto di più commuovente e dolce Lynch ha saputo operare in carriera: dormire come un uomo vuol dire essere un uomo. Più che un semplice film, una parabola universale su amore e odio, rispetto e violenza, umanità e bestialità, che agli Oscar 1981 si presentò come un candidato di peso con le sue otto nomination (tra cui Miglior film, Miglior regia, Miglior attore e Miglior sceneggiatura non originale) ma che rimase a guardare il mattatore Gente Comune di Redford. «Da qui a dieci anni Gente comune sarà la risposta a un gioco di società, ma la gente andrà ancora a vedere The Elephant Man» disse Brooks con la sua proverbiale ironia nel commentare il verdetto. E quarantacinque anni dopo quel 10 ottobre che vide il film distribuito nelle sale statunitensi vi diciamo: non si sbagliava affatto!
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