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I giorni del cielo | Richard Gere, l’America e l’ordine del tempo di Terrence Malick

Sam Shepard, la cecità di Almendros, il brano di Morricone, Cannes: cronaca di un capolavoro

I Giorni Del Cielo.
Richard Gere in una scena de I Giorni Del Cielo.

ROMA – Dopo il successo di La rabbia giovane del 1973 – prezioso spaccato di vita fatto di libertà, purezza e violenza ribelle che lanciò definitivamente Martin Sheen e Sissy Spacek nel firmamento delle stelle di Hollywood – per Terrence Malick arrivò la parte più difficile: ripetersi. Il problema è che nel frattempo era cambiata e non poco la società americana tanto che fu lo stesso regista a riflettere sul momento storico: «Sarebbe difficile per me fare un film sull’America contemporanea, viviamo tempi bui e abbiamo perso i nostri spazi. Da dove vengo io, il Texas, abbiamo sempre avuto la speranza, l’illusione, che ci fosse un posto dove vivere, dove si potesse emigrare e andare lontano. Svanendo questo senso dello spazio, lo ritroviamo nel cinema. Per un’ora, o due giorni o più, anche un vecchio film può darcelo». Il viaggio ne I giorni del cielo parte proprio da qui.

I giorni del cielo
I giorni del cielo venne presentato a Cannes nel 1979.

Malick riparte dalla necessità di trovare nel passato del 1916 e nel viaggio compiuto da Bill (Richard Gere) e Abby (Brooke Adams) nel Texas Panhandle alias Manico del Texas, le risposte del presente in un bisogno ontologico-nostalgico espresso da Malick in una ricerca del proprio posto del mondo: «Su questa terra ci stai una volta sola. E secondo me, per tutto il tempo che ci stai, devi starci bene», dice la piccola Linda in uno dei tanti versi elegiaci in voice-over costruiti da Malick. Il tutto cucito addosso ad una storia d’amore e di inganni, desiderio e fragilità d’animo, reso magica da campi lunghi a perdita d’occhio vestiti di albe e tramonti avvolgenti, colorato dall’evocativa colonna sonora di un Ennio Morricone che definì poi così la collaborazione con Malick: «Impegnativa. Non mi conosceva bene quindi dava suggerimenti che spesso si traducevano in soluzioni musicali…».

«Su questa terra ci stai una volta sola. E il tempo che ci stai, devi starci bene».

Certo, alla fine fu un bene per I giorni del cielo, tanto da arrivare alla nomination agli Oscar – la prima in carriera per Morricone grazie, soprattutto, al tema principale Harvest – solo che il processo dialogico creò non poca frustrazione in Morricone: «Tutto questo mi infastidiva perché diceva: Questa cosa provala con tre flauti – qualcosa di assolutamente impossibile! – quindi per assecondarlo lo facevo con tre flauti e poi decideva di usare comunque la mia versione attribuendosene il merito. La sua era impossibile, altrimenti l’avrei scritta io. Era molto pignolo, era molto attento a tutto, anche alla musica». Gli fece eco il DoP Néstor Almendros: «Era molto interessato alla fotografia, così come alla storia e agli attori, ma sapeva molto di fotografia, cosa che pochissimi registi conoscono. Sì, è stato stimolante lavorare con lui…».

Richard Gere e Brooke Adams sono Bill e Abby in una scena de I giorni del cielo
Richard Gere e Brooke Adams sono Bill e Abby

Ciliegina sulla torta del comparto tecnico di un’opera sublime, dalla regia meticolosa, preziosa, che a Cannes – dove fu presentato in concorso il 15 maggio 1979 – fu insignita del Prix de ma mise en scène. La lavorazione però sul set fu difficile. Molto difficile. Facciamo un passo indietro però, perché la storia de I giorni del cielo inizia prima, esattamente nel 1975, anno in cui Jacob Brackman presentò l’executive Bert Schneider a Malick. Durante un viaggio a Cuba, i due iniziarono una serie di conversazioni creative che potremmo definire l’anticamera de I giorni del cielo a partire dalla storia raccontata da Milady de Winter ne I tre moschettieri di Alexandre Dumas. Si trattava di un aneddoto in cui Milady – nata Anne de Bueil – divenne ladra con il suo amante, un prete spogliato. In fuga, finsero di essere fratello e sorella per poi nascondersi in un villaggio.

«Malick mi ha permesso di fare quello che ho sempre voluto: usare sempre meno luce artificiale»

Qui, Milady finì con il sedurre e sposare per i propri interessi il nobile locale, praticamente il plot alla base de I giorni del cielo partendo però da motivazioni caratteriali molto diverse. Per i ruoli da protagonista Malick tentò di convincere uno tra Dustin Hoffman e Al Pacino. La parte di Bill la ottenne infine John Travolta che però dovette subito rinunciarvi perché la ABC-TV non gli diede il permesso di rescindere il contratto per la serie I ragazzi del sabato sera di cui era la star. Schneider accettò, a nome della Paramount Pictures e del CEO Barry Diller, di finanziare il film, specie perché la grana interprete fu subito risolta ingaggiando Richard Gere che di lì a poco sarebbe esploso con In cerca di Mr. Goodbar di Richard Brooks. Sam Shepard invece venne preso per il ruolo della nemesi, al primo personaggio come interprete dopo una vita da drammaturgo.

Sam Shepard è Chuck, il fattore in una scena de I giorni del cielo
Sam Shepard è Chuck, il fattore

A quel tempo la Paramount voleva esplorare nuove vie creative. Stavano assumendo nuovi capi di produzione dal passato televisivo che, secondo Richard Sylbert: «Fabbricavano prodotti mirati per colpirti alle ginocchia». Nonostante il cambio di rotta, Schneider ottenne il finanziamento per I giorni del cielo, garantendo il budget di 3 milioni di dollari e assumendosi la responsabilità personale di tutte le eccedenze: «Quello era il tipo di accordi che mi piaceva fare, perché così avrei potuto avere il final cut e non parlare con nessuno del motivo per cui ho fatto/non ho fatto quella scelta», che con Malick di mezzo era quanto di più vicino a un’harakiri. Come DoP, come detto, Almendros, di cui Malick ammirava il lavoro e che scelse personalmente dopo essere rimasto favorevolmente impressionato da Il ragazzo selvaggio di François Truffaut del 1970: tra i due fu intesa istantanea.

In Italia I giorni del cielo fu invece distribuito il 17 maggio 1979
In Italia il film fu invece distribuito il 17 maggio 1979

A detta di Almendros: «Malick mi ha permesso di fare quello che ho sempre voluto fare, ovvero usare sempre meno luce artificiale su un film d’epoca e mi ha spinto in questa direzione. Piuttosto che ricostruire la luce, aspettammo sempre la giusta luce naturale al momento giusto». Modellarono il taglio di luce de I giorni del cielo sulla fotografia dei film muti, che usavano spesso la sola luce naturale, traendo poi ispirazione dalla composizione di immagine e luce di Johannes Vermeer, Edward Hopper (House by the Railroad) e Andrew Wyeth, nonché da reportage fotografici dell’inizio del XX secolo. Manco a dirlo, il piano di lavorazione era parecchio volatile, tendendo più all’improvvisazione e all’ispirazione di Malick della giornata. Questo sconvolse, e non poco, alcuni membri della troupe, abituata inoltre a uno stile fotografico artificiale e perlopiù patinato.

«Il mio desiderio: impedire la tecnica e che la fotografia fosse elaborata per essere bella»

Ogni giorno Almendros chiedeva loro di spegnere le luci che avevano preparato per lui e per la scena. Il tutto sfociò in un mini ammutinamento in cui Malick prese le parti del suo direttore della fotografia perché serviva al film e all’arte de I giorni del cielo. Meno luce significava lasciare l’immagine nuda nella sua purezza: «Questo era il mio desiderio, impedire la comparsa di qualsiasi tecnica e che la fotografia fosse elaborata per essere visivamente bella e per garantire che questa bellezza esistesse nel mondo che stavo cercando di mostrare, suggerendo ciò che era perduto o che stavamo perdendo». Solo che per Almendros non fu affatto facile. Non solo, a causa dei regolamenti sindacali canadesi non gli era permesso (come spagnolo/europeo) di utilizzare la cinepresa, tanto da essere affiancato sul set dall’operatore John Bailey, ma stava gradualmente perdendo la vista!

L’ora magica di Néstor Almendros

Al punto da chiedere ai suoi assistenti di scattare delle Polaroid della scena per poi esaminarle attraverso occhiali dalle lenti molto resistenti. Un’impresa titanica, specie tenendo conto del tipo di film dal taglio particolarmente visivo. Almendros e Malick volevano infatti che I giorni del cielo fosse un film diverso: «Un film in cui la storia sarebbe stata raccontata attraverso le immagini. Pochissime persone vogliono davvero dare quella priorità all’immagine, di solito il regista la dà agli attori o alla storia, ma qui no, qui la storia è raccontata attraverso le immagini». Per girare la scena in condizioni ottimali serviva la cosiddetta Ora Magica, che secondo Almendros però aveva un problema: «Ci limitava a circa venti minuti al giorno: è il momento tra il sole che tramonta e poco prima che arrivi la notte, ma sullo schermo pagava. È una luce molto tenue che ha un ché di magico, di romantico».

La scena madre de I giorni del cielo
La scena madre de I giorni del cielo

Stile fotografico che trovò l’apice nella celebre sequenze delle locuste in cui gli insetti si alzano in cielo che de I giorni del cielo è certamente lo shot più caratteristico. Ma come lo realizzarono? Almendros e Malick fecero cadere gusci di noccioline dagli elicotteri per poi far muovere attori e comparse all’indietro mentre giravano la sequenza in reverse. Proiettato a velocità naturale tutto andava in avanti eccetto le locuste per i cui primi piani furono utilizzate una colonia di migliaia di locuste garantita alla Paramount dal Dipartimento dell’Agricoltura del Canada. Gli intenti artistici de I giorni del cielo non andavano però, di pari passo, con quelli tecnici e umani. Perché? Perché Malick, da uomo estremamente introverso, trovò difficile entrare in empatia con il cast che lo reputò freddo e distante e dovette affrontare imprevisti di ogni genere. E il budget lievitò a quasi quattro milioni di dollari.

Le locuste: le deuteragoniste de I giorni del cielo
Le locuste: le deuteragoniste de I giorni del cielo

Come da accordi tra Schneider e Paramount, li coprì lui, ipotecando la sua casa per coprire le eccedenze. Dopo due settimane di riprese era talmente deluso dai titoli che leggeva sui quotidiani che decise di gettare lo script nella spazzatura e andare «Da Leo Tolstoj anziché Fedor Dostoevskij – o in altri termini – di andare in largo anziché in profondità» in modo da girare chilometri di pellicola nella speranza di darvi forma in fase di post-produzione. Poi l’ennesimo imprevisto. Perché il protarsi delle riprese costrinse Almendros e Bailey ad abbandonare il progetto causa precedente accordo con Truffaut per il suo L’uomo che amava le donne del 1977. In sostituzione arrivò il veterano Haskell Wexler che dalla sua, per quanto possibile, restò fedele allo stile del collega, fotografando quasi metà I giorni del cielo: non ricevette alcun merito artistico.

I giorni del cielo: raccontare per immagini
I giorni del cielo: raccontare per immagini

Non sarà nemmeno nominato agli Oscar di quell’anno che videro Almendros trionfare. Un’ingiustizia a cui Wexler provò a porvi rimedio scrivendo un’accorata lettera all’eminente critico Roger Ebert in cui raccontò di essere andato al cinema e di aver cronometrato le scene de I giorni del cielo da lui fotografate. Non ci fu mai modo di risolvere la controversia, se non che Wexler accettò, suo malgrado il non aver vinto un Oscar per metà suo. I veri problemi per I giorni del cielo sorsero però nella sua complicatissima post-produzione, tanto che ci vollero due anni prima che Malick trovasse la giusta forma ai suoi chilometri di pellicola. A detta di Schneider durò talmente che un altro regista, Richard Brooks, ebbe modo di completare il suo percorso: «Scelse Gere, girò e montò e distribuì In cerca di Mr. Goodbar mentre Malick stava ancora montando…».

Il Manico del Texas, Terrence Malick e il Sogno Americano

La svolta arrivò quando Malick sperimentò il voice-over di Linda in modo da creare un commento obliquo alla storia che permise di eliminare molti dei dialoghi dello script. Dopo circa un anno richiamò in scena i suoi interpreti per girare alcuni inserti, ponendo fine a un’esperienza probante e di grande fatica per il regista che, concluso il montaggio, si trasferì a Parigi con la sua ragazza. Schneider, dalla sua, rimase deluso dall’esperienza di lavoro con Malick, ma non gli executive della Paramount che dopo un test-screening de I giorni del cielo – e nonostante il magro incasso di 3 milioni e mezzo (un flop quindi, visti i 4 milioni di spese) – nella figura di Charlie Bluhdorn della Gulf + Western offrì a Malick 1 milione di dollari e carta bianca per il suo prossimo progetto, qualsiasi cosa fosse stato.

Dopo I giorni del cielo, Malick scelse il silenzio
Dopo I giorni del cielo, Malick scelse il silenzio

Quel progetto era il mitologico Q, entrato in pre-produzione nel 1983 e poi abbandonato dopo un breve periodo di riprese in esterna di seconde unità, le cui immagini saranno poi inserite da Malick nel dar forma a The Tree of Life del 2011 e la sua costola narrativa, Voyage of Time – Il cammino della vita del 2016. Oltre trent’anni dopo la sua genesi creativa e trentotto anni dopo I giorni del cielo. Nel mezzo c’è La sottile linea rossa, portato a Berlino nel nel 1998, esattamente a vent’anni di distanza dalla sua ultima fatica e con cui Malick realizzò il più poetico dei coming-back che Hollywood ricordi, ma quella, si sa, è tutta un’altra storia.

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Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

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