ROMA – La seconda metà degli anni Settanta ha rappresentato uno snodo cruciale nella carriera (e nella vita) di Martin Scorsese. La Palma d’Oro a Cannes per Taxi Driver e la consapevolezza di aver realizzato un instant-classic. Nessuno avrebbe creduto che nel giro di due anni Scorsese si sarebbe dissipato tra New York, New York e L’ultimo valzer. Due grandiose opere musicali ad oggi ritenute preziose che però poco incontrarono il favore di critica e pubblico. Il risultato? Il declino. Al punto che Scorsese sprofondò in una grave forma di depressione culminante nel settembre 1978 in un’emorragia interna per overdose di cocaina mischiata a psicofarmaci. Parte da qui il viaggio di Toro Scatenato e dell’epica tragica di Jake LaMotta che finì con l’essere catarsi eccellente e balsamo miracoloso per Scorsese e il suo male di vivere. Facciamo un passo indietro però.
Perché, a dire il vero, non è che Scorsese fosse stato mai particolarmente interessato alla boxe. Quando seppe di che tipo di film sarebbe dovuto essere Toro Scatenato affermò candidamente: «No no non fa per me, non ci capisco niente di boxe, per me è come una partita fisica a scacchi». Non è da lui infatti che è partita l’iniziativa di realizzare quello che poi, a conti fatti, ha rappresentato una delle vette artistiche del suo cinema: «Robert voleva fare questo film». Durante la lunga convalescenza De Niro gli fece visita mettendolo alle corde: «Devi ripulirti e devi girare questo film!». Scorsese accettò dopo che ne discussero per anni (ancora prima del ricovero) per una semplice ragione: dopo i flop musicali di New York, New York e L’ultimo valzer aveva scelto Toro Scatenato come quell’ultimo film con cui salutare Hollywood per poi dirigersi verso un’Europa di implicito ridimensionamento.
E in effetti – e chi ha visto Toro Scatenato ne può aver avvertito il sentore – c’è come un certo sapore nichilista/crepuscolare, anche fosse solo per la prima frase pronunciata da un De Niro/LaMotta la cui informe trasformazione fisica finisce con l’accentuarne l’effetto decadente: «Me li ricordo ancora gli applausi. Me li sento ancora nelle orecchie e me li porterò dietro per tutta la vita…», come se fosse Scorsese a parlare al suo pubblico in una velata meta-significazione da saluto di commiato ai tempi d’oro di Alice non abita più qui e Taxi Driver. Fortunatamente per noi la storia e la vita scelsero diversamente. L’idea per Toro Scatenato nacque incredibilmente sul set de Il padrino: Parte II (qui per la Parte I). Durante le pause tra un ciak e l’altro ebbe modo di leggere l’autobiografia autorizzata di LaMotta (Raging Bull. My Story) vedendovi da subito un grosso potenziale.
Gliela regalò LaMotta stesso peraltro, autografandogliela con una dedica dalle parole abbastanza eloquenti: «Per l’unico attore al mondo che potrebbe ritrarre la mia vita pazza». Propose così l’idea a Robert Chartoff e Irwin Winkler della Metro Goldwyn Mayer – i produttori dietro a quel capolavoro di Rocky – che mostrarono interesse in Toro Scatenato a condizione che a dirigerlo ci fosse quello Scorsese che dopo l’incidente iniziò a vedere nella narrazione sportiva una preziosa inerzia ontologica: «È come un’allegoria per qualcosa tu faccia nella vita, ogni volta che fai un film è come se fossi sul ring». Avviata la pre-produzione nel 1978, Scorsese diede mandato al suo frequente collaboratore, lo sceneggiatore Mardin Martin, di occuparsi dello script. Accettò l’incarico per via del suggestivo parallelismo pugile/gladiatore dell’Antica Roma e poi gli piaceva l’idea dei signori del crimine a bordo ring, imbrattati del sangue spruzzato dei combattenti.
Da quanto risulta sembrerebbe che il primo draft di Martin fosse un adattamento biografico abbastanza canonico caratterizzato da un grande uso della verità soggettiva (alla Rashomon per intenderci). C’era un problema però: non era sincero. Al pari dell’autobiografia infatti lo script di Martin omise del tutto il ruolo di Joey LaMotta (il fratello di Jake, interpretato da un grande Joe Pesci). Scorsese e DeNiro lo giudicarono insoddisfacente e la stessa MGM finì con il licenziare Martin così da affidare Toro Scatenato ad una penna più sapiente ed ingegnosa: quell’uomo era Paul Schrader. Non era facile però. Fresco del successo dell’opera prima Tuta blu (qui per il nostro Longform) e impegnato sul set della sua seconda regia (Hardcore) per l’ex sceneggiatore di Taxi Driver era un periodo pieno di impegni e di grande freschezza artistica. Fu De Niro a chiederglielo come favore.
Schrader salì a bordo del progetto finendo con il costruire un secondo draft arricchito di sottotrame, digressioni temporali tra passato e presente e focalizzato maggiormente sul caotico rapporto tra i fratelli LaMotta: il vero cuore narrativo di Toro Scatenato. Solo che non sentiva un granché suo il progetto, specie perché era entrato in corsa per salvare il draft di Martin. Iniziò così ad aggiungere sequenze spiazzanti per capire fin dove poteva spingersi con i censori della distribuzione della United Artists, tra cui una scena in cui LaMotta si masturbava per poi raffreddare i bollenti spiriti sedendosi su un secchio di ghiaccio. La sequenza fu poi rimaneggiata. L’idea di un biopic su un pugile scontroso, violento e perennemente sopra le righe rischiava d’essere un enorme problema specie perché, secondo gli amministratori delegati Steven Bach e David Field, il rischio che fosse classificato come X era altissimo.
Partendo dalle solide fondamenta dategli da Schrader, Scorsese e De Niro scrissero così il terzo draft di Toro Scatenato (quello realmente ufficiale ma a conti fatti ufficioso, non sono accreditati come sceneggiatori) snellendo le giocose e irriverenti spigolosità caratteriali del LaMotta di Schrader per renderlo più comprensivo e fragile. Questo finì per dare all’anti-eroe LaMotta una tridimensionalità che permise di mostrare la bestia e l’uomo dell’agente scenico di un De Niro che tra una prima parte combattiva e una di declino crepuscolare vide il leggendario interprete realizzare la quintessenza del Metodo in una performance strabiliante di intensità recitativa e sacrificio artistico che gli valsero nel 1981 il suo primo (e attualmente unico) Oscar al Miglior attore protagonista. Partendo dai suoi 66 kg iniziali De Niro lavorò sotto la supervisione di Franco Columbu per aumentare il proprio peso sino a quei 97 kg necessari per il secondo ciclo di riprese.
A quel punto la MGM sospese il progetto spedendo De Niro in un viaggio culinario tra la Francia e il Nord Italia caratterizzato da una dieta esclusivamente formata di frullati proteici e almeno mezzo chilo di pasta al giorno tra pranzo e cena. I veri problemi però sorsero al suo ritorno perché la trasformazione fisica lo afflisse di problemi di salute che gli impedivano di mantenere la corretta postura, perfino di parlare e respirare. Certo, a lavorazione ultimata Columbu continuò a seguirlo per fargli perdere i 30 kg accumulati per poi ricostruirne il tono muscolare, ma è in quella seconda parte di riprese che si giocò la partita di Toro Scatenato. Per una presenza scenica magnificente e gigantesca il cui addome strabordante ingloba in sé l’immagine e gli stessi estremi della narrazione.
Quegli incipit e climax che Scorsese cucì addosso a Toro Scatenato/LaMotta mettendolo alle corde del ring della vita attraverso due monologhi magistrali di pura catarsi scenica tra lo shakespeariano Riccardo III e il gemellare-pugilistico Fronte del porto – entrambi aggiunti da Scorsese e DeNiro nel terzo draft ufficioso – che nel loro essere acute espressioni di un bricolage narrativo di puro citazionismo tra passato e presente, finirono con lo spingere LaMotta a fare i conti con le proprie scelte cantando di gloria e di rimpianti davanti allo specchio di un sudicio night, in un momento filmico impareggiabile tra la farsa e la cupa tristezza così raccontato da Scorsese: «Ho lasciato LaMotta più in pace con sé stesso che con me stesso, speravo di arrivarci anch’io a quel momento davanti allo specchio, ma non ce l’ho fatta. È solo una questione di vivere attraverso il cinema, credo».
Nel mezzo c’è il viaggio di Toro Scatenato con Scorsese che incise come dei segni sul corpo in mutazione di LaMotta facendogli pagare ogni errore commesso, ogni atto violento verso la moglie Vicky (Cathy Moriarty) e il fratello Joey. Rapporti di loro critici, nati nel caos, distrutti a suon di ceffoni e rappresaglie sino alla commozione e alla rassegnazione, per poi, in gattabuia, metterlo di fronte alla sua dignità da campione ormai calpestata, presa a pugni e testate nel buio della notte. Scorsese, anche in virtù del precedente perfetto di Rocky, scelse di opporsi in ogni modo alla narrazione di Stallone ora nell’uso del finissimo bianco-e-nero alla maniera di Paper Moon (qui per il nostro Longform) che acuì i toni tragici del racconto, ora nell’a-linearità marcata dalla ricca digressione temporale, ora, soprattutto, nella fluidità registica degli incontri resi non nel canonico formato televisivo orizzontale ma dentro al ring.
Il montaggio netto di Thelma Schoonmaker – che per il suo pionieristico lavoro in Toro Scatenato vinse l’Oscar per il Miglior montaggio – conferì ritmo e vivacità ai match così da poter percepire la forza dei pugili, il dolore inferto, l’odore del sudore, perfino il sapore del sangue in bocca ad ogni colpo rozzo sferrato in un’autentica mimesi empatica tra lo spettatore e LaMotta. L’apogeo è certamente l’incontro chiave che segnò l’inizio del declino di LaMotta, quello con Sugar Ray Robinson, di cui Scorsese impostò la resa registica e il ritmo di montaggio sulla base della struttura originale della sequenza della doccia dell’hitchcockiano Psycho. La verità però è che, anche senza gli sforzi strutturali in piena opposizione a Rocky, Toro Scatenato avrebbe brillato di un’abbagliante e meravigliosa luce propria visto che è dotato di un’inerzia praticamente antitetica se rapportata a quella del film di Avildsen.
Laddove infatti Rocky racconta del più puro e semplice sogno americano in funzione del perfetto outsider reso nella forma di un italo-americano dalla vita sfortunata e disastrata ma dal cuore d’oro che si ritrova, per puro caso, con la chance di salire sul tetto del mondo e fare finalmente la cosa giusta, Toro Scatenato è invece la faccia dell’incubo americano, o di ciò che accade quando la fiamma della gloria si spegne e i demoni interiori decidono che è finita. Non c’è e non può mai esserci un happy ending in Toro Scatenato, e nessuna Adriana a cui urlare a squarciagola il proprio amore, perché Jake LaMotta non ha mai fatto nulla per essere come Rocky Balboa. Conclusasi la lunga lavorazione per Toro Scatenato ebbe inizio una più che lunghissima post-produzione che creò più di una frizione tra MGM e Scorsese.
Barricato nel suo appartamento newyorchese assieme alla Schoonmaker e al regista Michael Powell (il marito di lei) Scorsese operò un’azione certosina nel gestire ogni delicato equilibrio di Toro Scatenato, specie nel sound mixing delle sequenze pugilistiche, una scelta insolita ma giustificata: ritenendolo il suo canto del cigno voleva che fosse perfetto in ogni dettaglio. Solo che accadde qualcosa di strano durante la fase di montaggio: più si avvicinava al dare una forma alla narrazione, più sentiva che Toro Scatenato aveva un’anima forte dalle radice solidi e ramificate. Non era affatto la fine della sua carriera, era semplicemente un nuovo inizio. Organizzato un test-screening negli studios MGM davanti ad una piccola audience tra cui Irwin Winkler e Steven Bach ed Andy Albeck della United Artists nel luglio 1980 che ebbe esito positivo, i dirigenti elogiarono il lavoro di Scorsese definendolo «Un vero artista». Poi l’impensabile.
Dall’altra parte degli Stati Uniti c’era una grana chiamata I Cancelli del Cielo di Michael Cimino (qui per il nostro Longform) che richiedeva l’attenzione totale dei dirigenti della United Artists. Questo ridimensionò e non poco la promozione nella stagione degli Oscar di un Toro Scatenato che riuscì alla fine a raggiungere il buio della sala (sarà presentato a New York il 14 novembre 1980) risultando, tuttavia, un magro guadagno: 23 milioni di dollari incassati a fronte di 18 milioni di dollari di budget, raggiunto di poco il punto di break-even. Le vere soddisfazioni arriveranno però la notte degli Oscar dove Toro Scatenato era tra i favoriti del pubblico nonostante il mismatch Gente comune/The Elephant Man. Abbiamo già detto di cosa ha rappresentato quel 31 marzo 1981 per De Niro e della Schoonmaker, quello che forse pochi sanno è che Scorsese, quella sera, non fu presente alla cerimonia.
Nemmeno un giorno prima il Presidente Ronald Reagan subì un attentato da parte del fanatico John Hinckley Jr. Il motivo di un simile gesto? Impressionare Jodie Foster per cui sviluppò un’ossessione morbosa che negli anni degenerò malamente in uno stalking compulsivo. E Scorsese? Beh il motivo dell’ossessione era da ricondursi all’iconico ruolo di Iris Steensma in Taxi Driver. Film che Hinckley vide talmente tante volte da identificarsi nel salvatore Travis Bickle. Quella sera degli agenti del FBI intercettarono Scorsese nei bagni del Dorothy Chandler Pavilion per scortarlo in un luogo sicuro dove sarebbe stato interrogato. Chiedendo loro di aspettare di sapere, almeno, chi avrebbe vinto il Miglior film e il Miglior regista la risposta fu spiazzante: «Non serve, lo sappiamo già: vanno entrambi a Robert Redford per Gente Comune», ma quella è tutta un’altra storia…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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