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Fuori Orario | Martin Scorsese, Griffin Dunne e quel set che non doveva esistere

Rosanna Arquette, Joseph Minion, Michael Powell, il premio a Cannes. Perché riscoprire un cult

Martin Scorsese e Griffin Dunne sul set di Fuori Orario.

ROMA – Nonostante gli anni Ottanta di Martin Scorsese fossero partiti forte con Toro scatenato e i suoi due Oscar nel 1981 (attore e montaggio), l’opera successiva, Re per una notte, fu accolta con grande scetticismo da critica e pubblico. Oggi ritenuto un cult, citato nello spirito da Joker (ve lo avevamo anche raccontato qui), all’epoca il suo concept per poco non costò la carriera a Scorsese. Eppure è proprio in questo terreno di incertezza che prese forma Fuori Orario del 1985, l’opera più kafkiana e insolita dell’opus scorsesiano che vi raccontiamo in questa nuova puntata del nostro Longform (qui trovate le altre). Il 1983 fu infatti un anno particolarmente critico per la sua carriera. Oltre a raccogliere i cocci dell’epica di Rupert Pupkin, Scorsese era prossimo alla realizzazione de L’ultima tentazione di Cristo quando, a quattro giorni dall’inizio delle riprese, la Paramount ne bloccò la lavorazione. Il motivo? Una valanga di lettere di protesta che accusavano il regista di blasfemia.

Il cameo di Martin Scorsese in Fuori orario
Il cameo di Martin Scorsese in Fuori Orario.

Come se non bastasse anche la sua vita girava a vuoto: aveva da poco divorziato da Isabella Rossellini. Quando mise le mani sullo script di Lies di Joseph Minion concepito come saggio finale del corso di cinema alla Columbia University del mitologico regista jugoslavo Dušan Makavejev, fu come una folgorazione. E viveva già di una discreta notorietà Lies, tanto da aver colpito Amy Robinson e Griffin Dunne che ne acquistarono i diritti di utilizzazione poco dopo la fine del corso. A quel punto, con Scorsese a bordo del progetto impegnato nella riscrittura, Lies fu ribattezzato Una notte a Soho. A posteriori la cancellazione de L’ultima tentazione di Cristo fu una vera benedizione. Se fosse partita come previsto, Fuori Orario sarebbe stato affidato a un giovane Tim Burton in cerca del suo primo lungometraggio dopo il corto Vincent del 1982.

Griffin Dunne è Paul Hackett

Con Scorsese entrato in scena che scelse di strutturarlo come parodia filmica di Marnie, Burton si defilò per dedicarsi interamente alla post-produzione di Frankenweenee prima e Pee-wee’s Big Adventure poi. Fuori orario fu il primo film dal 1974 di Alice non abita più qui in cui Scorsese non produce e dirige assieme al suo (primo) feticcio attoriale: quel Robert De Niro con cui, da Mean Streets a Re per una notte passando per Taxi Driver e Toro scatenato, aveva realizzato pagine di grandissimo cinema. Non è però da meno Fuori Orario che vede aprire il racconto in modo indimenticabile: regia veloce di armoniche carrellate e dinamiche soggettive esplorative che, sulle note della Sinfonia K95 (73n) di Mozart, ci introduce nella vita noiosa e comune di un Paul Hackett (Griffin Dunne) archetipo dello yuppie alienato e rampante dai sogni di vita migliore spenti da una routine meccanica.

L’appartamento ‘sbiadito’ di Paul

In tal senso quello di Fuori orario è un incipit di grande cinema. Con una sola e semplice corsa in taxi, Scorsese catapulta il pigro Hackett da un vuoto appartamento in color avorio reso caldo e illuminato da una TV al centro di una Soho colorita e caotica con cui avvolgere la narrazione di Fuori Orario del sapore di un atipico survival horror. Nel ritmo di una regia vorticosa, Hackett si trova così immerso fino al collo di agenti scenici paranoici e kafkiani: cassieri ballerini, tassisti che viaggiano a rotta di collo, scultrici sensuali, seduttrici schizofreniche, baristi amichevoli, cameriere problematiche, gelataie vendicatrici e orde inferocite, di cui Scorsese amplifica la criticità caratteriale in maniera graduata ma esponenziale. È questo il popolo della notte di Soho. Un assurdo mondo che finisce con il travolgere il passivo Hackett in un turbinio di amori fugaci e tentazioni letali.

Rosanna Arquette in una scena di Fuori orario
«Arrenditi Dorothy!». Rosanna Arquette in una scena.

Tra questi la pirotecnica e bipolare Marcy (Rosanna Arquette) che funge da sgangherato oggetto del desiderio tra sensualità, orgasmi provenienti da Emerald City – «Arrenditi Dorothy!» – e quel Tropico del Cancro di Henry Miller audacemente definito: «Uno scaracchio in faccia all’arte. Un calcio in cu*o a divinità, bellezza e verità!». Tutti eventi solo apparentemente sconnessi orchestrati da Scorsese in un sottilissimo gioco di intenzioni, dettagli e rimandi, con cui sguinzagliare un arco di trasformazione di pura paranoia claustrofobica fino a trasecolare definitivamente nell’ansia straniante, tagliente e densa di un conflitto scenico talmente armonico nella sua struttura variopinta che le svolte narrative di cui è composto – se chirurgicamente asportate – sembrano perfino da commedia d’equivoci brillante: la differenza la fanno le dense atmosferiche grottesche a un passo dall’horror psicologico alla base di Fuori Orario. Il vero problema? Il climax.

Il primo incontro tra Paul e Marcy

Scorsese lo rese nella forma di una rinascita esplicita e grafica dopo aver toccato il fondo. Un uscire dalla crisalide di una vita sterile con cui cementificare gli intenti di trasformazione caratteriale assunto nella forma di un riappropriarsi della vita e del proprio posto nel mondo al momento giusto. Oggi sembra spontaneamente geniale. Diede al racconto un’ultima sferzante nota ciclica con cui arricchire di senso il viaggio kafkiano nella straordinaria Soho che è doppia risoluzione del conflitto scenico di Fuori Orario: esteriore e interiore. Al tempo però Scorsese non sapeva davvero che pesci pigliare. Una sera invitò Brian De Palma, Steven Spielberg e Terry Gilliam per vedere un cut provvisorio così che magari venisse fuori un’idea su come finire il film in modo coerente ed efficace, nessuno di loro però riuscì ad aiutarlo.

La rinascita di Paul nel climax di Fuori orario
La rinascita di Paul nel climax di Fuori orario

In suo soccorso venne allora la montatrice Thelma Schoonmaker il cui marito, il regista Michael Powell, consigliò a Scorsese la soluzione che divenne poi quella definitiva: «Deve finire di nuovo al lavoro». Presentato ufficialmente a New York l’11 settembre 1985 per poi stupire il mondo intero a Cannes dove Scorsese fu insignito di un sorprendente premio alla regia al sapore di rinascita e riscatto – specie per la casualità degli eventi – Fuori orario è in realtà un’opera dal retaggio insolito. Un po’ alla maniera di America oggi di Altman (di cui potete leggere qui) la sua difficile reperibilità nei passaggi televisivi, oltre che di un’ormai conclamata assenza nel mercato Home Video, ha finito con il renderlo negli anni un’opera dimenticata dell’opus, lasciata sottotraccia: eppure è (forse) la più pura e fulgida espressione dell’eclettismo del suo autore.

«Il miglior Scorsese fuori dalla comfort zone di spaghetti, gangster e sperimentazioni»

Un high-concept dai feroci intenti che rappresenta a pieno titolo il miglior Scorsese fuori da quella (bellissima) comfort-zone narrativa fatta di spaghetti, gangster e sperimentazioni. Un cult che potete (e dovete) riscoprire (lo trovate su Prime Video e Apple TV+) e cresciuto con un curioso tempismo. Nemmeno pochi mesi prima infatti (febbraio 1985) John Landis uscì al cinema con un’opera dall’inerzia similare per non dire gemellare: Tutto in una notte, con Jeff Goldblum e Michelle Pfeiffer. Se però la notte di Landis è si, colorata e surreale, ma dalla follia comica e innocua (e dal climax ben più canonico), quella del Fuori orario di Scorsese è straniante e ansiogena. Due grandi storie di cinema che finiscono con il compenetrarsi sino a vivere della luce riflessa dei parallelismi e nelle zone d’ombra delle opposizioni di un’unica (semplice) narrazione concettuale: un uomo, una donna e il buio della notte sullo sfondo…

  • LONGFORM | Toro Scatenato, De Niro, Scorsese e il mito di Jake LaMotta
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:

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