ROMA – Il romanzo L’età dell’innocenza ebbe un’importanza di non poco conto nell’ambito della letteratura americana di inizio XX secolo. Pubblicato nel 1920, permise a Edith Wharton di vincere il Pulitzer, la prima donna nella storia a ottenere un simile riconoscimento. Nel 1993, settantatré anni dopo il successo, a misurarsi con una delle opere femministe più rilevanti di tutti i tempi ci pensò Martin Scorsese che nel cimentarsi per la prima (e unica) volta nel genere in costume segnò per sempre l’immaginario tra le scenografie di Dante Ferretti e i costumi di Gabriella Pescucci. Il risultato? Una cura scenico-cromatica oltre ogni immaginazione fatta di transizioni veloci di colori sfumati a sottolineare l’andamento e lo sviluppo del racconto, come il rosso per la violenza o il giallo per la speranza e fiducia.
Del resto già l’entrata in scena dei personaggi a teatro de L’età dell’innocenza è condita da una regia dinamica e vivace di dettagli e particolari tra sguardi indiscreti, binocoli e dietrologia, con cui mostrarci il contesto narrativo dell’America di fine Ottocento. La sequenza introduttiva – di un genere decisamente insolito per Scorsese – vive del linguaggio del corpo, di silenzi e parole sussurrate, di cenni e usanze nel buio di una fotografia illuminata unicamente da luci diegetiche, capaci di conferire un’intimità scenica buttata in pasto all’ipocrisia della nobiltà americana. Si fa preziosa la regia di Scorsese ne L’età dell’innocenza, quasi viscontiana nella solennità dei momenti e e nel far estasiare lo spettatore nella cura scenografica di Ferretti.
C’è tutto però di Scorsese nelle semi-soggettive, nelle soggettive e nella velocità di primi piani e piani medi e nel ritmo filmico, perché L’età dell’innocenza ha la musicalità dei valzer di Strauss, un linguaggio innovatore del cinema di genere, ma è proprio questa la grandezza dei grandi cineasti come Scorsese: entrare in punta di piedi in un genere non abituale per farlo suo, caratterizzandolo profondamente. E poi c’è il tema della violenza che del cinema di Scorsese è il trait d’union, qui declinato non nella tipicità sanguinolenta e visiva, ma latente, verbale, ostracizzante, fatte di parole e di gratuite insinuazioni. Del resto fu lo stesso Scorsese a dirlo, in occasione della presentazione di The Irishman alla Festa del Cinema di Roma: «L’età dell’innocenza è il mio film più violento e cupo…».
Quella dell’opera della Wharton è quel tipo di violenza delle malelingue che demoliscono spiritualmente la reputazione di chiunque nei salotti altolocati. Nel caso specifico è la Contessa Olenska dal cognome «Così polacco» e dal vestito «Semplice e insignificante» di una Michelle Pfeiffer stratosferica nella sua voglia d’emancipazione in una società come quella newyorchese di fine Ottocento de L’età dell’innocenza, dove la parità di diritti (e d’azioni) tra uomini e donne era impossibile, irraggiungibile e perfino malvista e dove la ricerca dell’indipendenza faceva a pugni con la solitudine inflittale e con uno spasmodico bisogno di protezione e intimità. All’angolo opposto del reticolato c’è la Mary Welland di una Winona Ryder in perenne sottrazione emotiva, autentico simulacro narrativo di tutto ciò che la Olenska (elegantemente) combatte.
La sottomissione alle regole sociali, l’accondiscendenza, il bisogno di soddisfare i bisogni altrui piuttosto che quelli propri, necessari a una vita piena, tutto antitetico al divorzio, alla scelta di perseguirlo fino in fondo, qui nodo gordiano di un racconto come L’età dell’innocenza: lo specchio di una società dove esso viene riconosciuto dalla legislazione ma non dalle convenzioni sociali, limitando così la donna nel comportamento. Nel mezzo c’è Newland Archer di un formidabile Daniel Day-Lewis, elegante, aggraziato e al contempo straziato dalla dinamica relazionale con la Olenska fatta crescere da Scorsese nei dettagli di incontri, lettere, sospiri, baci rubati e carezze che nel suo dispiegarsi lo vede aiutante con cui prender confidenza delle regole del contesto sociale, amico sincero, fino al punto di rottura dell’amore proibito.
«Mi hai fatto intravedere dei lampi di vita vera, poi mi hai detto di continuare a viverne una falsa» dice Archer nella linea dialogica-chiave de L’età dell’innocenza che ne custodisce il cuore d’insita drammaticità, o di un amore proibito più che dalla natura stessa dalle convenzioni del tempo. Un amore morto sul nascere nelle apparenze e nell’allontanamento fisico, nella rinuncia, ma non nell’intensità, sino a superare i confini del tempo e geografici di quel climax straziante dove Archer rinuncia per sempre alla sola possibilità di vedere la Olenska dandole le spalle per un’ultima volta. Facile intuire a questo punto perché Scorsese si sia approcciato a un’opera simile: «Tratta di aristocrazia newyorchese in un periodo della storia che è stato trascurato, di codici e rituali e di un amore vivo e corrisposto ma mai consumato».
Ovvero – sempre per riportare le parole di Scorsese: «Il film copre praticamente tutti i temi di cui mi occupo di solito, quando ho letto L’età dell’innocenza mi son detto: Oh bene, tutti questi temi son qui». Una mosca bianca della filmografia scorsesiana, un unicum come lo fu Fuori orario nel 1985 (qui per il nostro Longform) che a trent’anni di distanza da quel 31 agosto 1993 che lo vide protagonista fuori concorso di quella stessa Mostra di Venezia dove Altman fu vincitore del Leone d’Oro (ex-aequo con Tre colori: Blu di Kieslowski) con quel gioiello sempre poco celebrato di America oggi (qui per leggerne) resta immutato nel suo eterno fascino filmico. Eppure, che ci crediate o meno, fu accolto con particolare freddezza dalla critica del tempo, cosa che a Scorsese (giustamente) non andò mai giù.
Dalla sua non si è mai capacitato del perché di tanto disinteresse critico nei confronti del film: «Quando ho girato L’età dell’innocenza i critici hanno detto: È sbagliato aspettarsi un po’ più di calore da Scorsese? Ho sempre pensato che fosse un film piuttosto caldo. Va bene, farò Casinò, e lo loro hanno detto: Beh, diamine, è lo stesso di Quei bravi ragazzi. Non può vincere. È vero, ok, Casinò ha lo stile di Quei bravi ragazzi, ma ha più a che fare con l’America e persino con Hollywood l’idea di non essere mai soddisfatti». Trent’anni dopo, come sempre molto tardi, il giudizio critico si è fatto oggi più comprensivo nei confronti di un capitolo fondamentale del cinema di Scorsese, assolutamente da riscoprire e comprendere in modo anche differente…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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