ROMA – Nell’estate del 1989, terminate le riprese del pilota televisivo de I segreti di Twin Peaks, David Lynch aveva cercato di dare alla luce due suoi concept. Uno era One Saliva Bubble incentrato tutto su una drag-queen detective (diventato poi cortometraggio nel 2019), l’altro Ronnie Rocket. Un lungometraggio riguardante: «L’elettricità e un tizio alto un metro con i capelli rossi» per usare le parole di Lynch e di cui rincorreva la realizzazione sin dai tempi di The Elephant Man. Entrambi gli script erano coinvolti in complicazioni contrattuali a seguito del fallimento della De Laurentiis Group alla fine degli anni Ottanta dopo il (brutto) tonfo commerciale di Dune, per poi essere acquistati dalla Carolco Pictures. «Ho avuto un brutto periodo fatto di tanti ostacoli. Non è stata colpa di Dino, ma quando la sua compagnia è andata a rotoli, sono stato inghiottito da tutto questo» commenterà in seguito Lynch.

La società di produzione indipendente Propaganda Films entrò a gamba tesa in un periodo privo di luce per il regista, incaricandolo di sviluppare uno script ispirato a un romanzo poliziesco degli anni Quaranta. Quasi in contemporanea, Monty Montgomery, produttore associato e grande amico di Lynch, lo introdusse al romanziere Barry Gifford che in quel periodo era arrivato alle battute finali di Cuore Selvaggio (Wild at Heart: The Story of Sailor and Lula, in v.o.). Un manoscritto neo-noir su di una coppia di giovani innamorati di un amore puro e incondizionato e impegnati in un viaggio on-the-road avventuroso, evocativo e romantico (edito in Italia da Mondadori nel 1990). Gli mancavano appena due capitoli ma si poteva dire che il grosso era ormai fatto. In gesto d’amicizia fece avere a Montgomery una bozza in modo da farsene un’idea. Due giorni dopo il manoscritto passò nelle mani di Lynch.

Le intenzioni di Montgomery erano quelle di dirigere un adattamento cinematografico di Cuore Selvaggio (lo trovate su Prime Video) chiedendo a Lynch di collaborare con lui nel ruolo di executive. La storia decise diversamente. «È fantastico Monty, ma cosa accadrebbe se lo leggessi e me ne innamorassi e volessi farlo io stesso?» disse Lynch, ma Montgomery non se ne preoccupò più di tanto non fosse altro perché riteneva che il concept non rientrasse nelle sue corde emotive. E invece, contro ogni pronostico, se ne innamorò e per un motivo ben preciso: «Cuore Selvaggio era esattamente la cosa giusta al momento giusto. Il libro e la violenza in America si sono fusi nella mia mente e sono successe molte cose diverse: Una storia d’amore davvero moderna in un mondo violento, un film sulla ricerca dell’amore all’inferno con una certa dose di paura, così come di cose su cui sognare».

Amò follemente il romanzo, lo vide come una metafora della vita per certi versi. Non ci volle molto prima di riuscire a mettersi in contatto con Gifford. Ma soprattutto con Propaganda, a cui chiese l’approvazione (che ottenne) di cambiare progetto in favore di Cuore Selvaggio per cui dovette entrare in pre-produzione in appena due mesi dall’acquisto dei diritti di utilizzazione economica del romanzo. Manoscritto che Lynch consegnò ai suoi due interpreti, Nicolas Cage e Laura Dern, e per cui scrisse un primo draft in appena una settimana. «Quello era un draft deprimente e privo di felicità, in quello stato non lo avrebbe voluto realizzare nessuno» dirà poi Lynch per via del finale originale di Gifford che avrebbe visto Sailor e Lula separarsi per sempre: «Onestamente non sembrava reale e coerente considerando come si sentivano l’uno per l’altra. Non sembrava per niente reale! Era freddo e proprio non riuscivo a vederlo».

Dello stesso parere l’executive Samuel Goldwyn Jr. che trovò freddo quel primo draft e che la vedeva alla stessa maniera sul finale. Nel secondo cambiò tutto, a partire dai toni cupi che Lynch smussò introducendovi una componente allegorica di colore che del cinematografico Cuore Selvaggio è la marcia in più: i riferimenti a Il Mago di Oz. Secondo Lynch: «Era un mondo orribilmente duro, e c’era qualcosa nel fatto che Sailor fosse un ribelle. Ma un ribelle con un sogno sul Mago di Oz è una cosa un po’ bella», perché finì con l’arricchire di senso la dimensione caratteriale di sfumature irripetibili e impareggiabili di un Sailor folle e caotico malato d’amore che canta soltanto Elvis Presley e farebbe di tutto per proteggere Lula. Quest’ultima fu un’intuizione di puro genio lynchiano sostenuta da Cage a cui regalò una copia di Golden Records di Elvis durante la lavorazione.

Ne canta due di canzoni (registrate in studio ma eseguite in playback in scena nda), Cage, una è Love Me e l’altra – nel finale con i titoli di coda in sovrimpressione – è Love Me Tender che permise a Lynch di risolvere il problema del finale di Cuore Selvaggio. Una scelta difficile equamente scissa tra la fedeltà al materiale originale e una soluzione che alcuni avrebbero potuto vedere come semplicistica e consolatoria: «Per avere un lieto fine resi il finale molto più commerciale, ma se non l’avessi cambiato, in modo che la gente non dicesse che stavo cercando di essere commerciale, sarei stato falso rispetto a ciò che il materiale stava dicendo» perché a monte c’era che Lynch si era affezionato all’amore carnale, folle e passionale di Sailor e Luna e proprio non riusciva ad accettare la visione fredda e disperatamente nichilista di Gifford.

Optò quindi per una soluzione a metà, qualcosa che sostenesse l’organicità di racconto e la cifra autoriale di Gifford da una parte, ma che dall’altra personalizzasse la narrazione in modo da indirizzarla verso binari più positivi così da allontanare lo spettro delle accuse di commercializzazione. Giocò con l’inerzia del momento Lynch, parlando di sorprese e attese d’amore polverizzate da quel «Te la sei cavata bene senza di me, è inutile complicarsi l’esistenza quando non serve» per poi ribaltarla del tutto con quella massima pronunciata da una visione di Glinda postmoderna (cameo magnifico di Sheryl Lee) che ricorda a Sailor come: «Se credi di avere un cuore selvaggio allora combatti per i tuoi sogni, ma non fuggire dall’amore». Quindi la corsa disperata, il traffico convulso, i salti tra un cofano e l’altro delle auto incolonnate e il trionfo dell’amore di Sailor e Luna contro ogni difficoltà.

Ed è proprio in questo switch narrativo, in quest’inerzia mutata, che Cuore Selvaggio vede i propri ideali filmici elevarsi. E non perché, a volte, un happy-ending può essere la soluzione più facile per mettere il punto a un racconto, ma perché, come dice Lula a un certo punto: «Questo è un mondo cattivo senza pietà che racchiude in sé un cuore selvaggio». È la vittoria dell’amore contro i mali corrotti del mondo, è la speranza che vince sull’odio e la ferocia, è una nota di colore vivace là dove gli eventi avrebbero potuto dire il contrario. Una soluzione narrativa che nel ricordarci l’infinito potere del cinema in netto contrasto con gli stretti confini della realtà, pone i sigilli su di un Cuore Selvaggio rilettura lynchiana del cinema on-the-road inteso come viaggio lineare dallo sviluppo armonico che procede per dilatate ellissi temporali dal respiro romanzesco contaminato di manipolazioni visive e sonore.

Ma soprattutto una soluzione che è coerente al modo in cui Lynch vedeva Sailor e Lula: un’unica entità caratteriale scissa in due personaggi. Lei, sessuale e selvaggia (una stratosferica Dern); Lui crudo e infiammabile (Cage mai così fisico ed esplosivo nei suoi tempi d’oro). O molto più semplicemente, per usare le parole di Lynch: «Per me, è solo una raccolta di idee che vengono fuori. Quelle più cupe e quelle più leggere, quelle umoristiche, tutte insieme. Cerchi di essere il più fedele possibile a quelle idee e di metterle su pellicola» Per certi versi un film gemellare a Velluto Blu nel modo in cui racconta il lato oscuro degli Stati Uniti e la crisi di valori della società borghese, Cuore Selvaggio, che in quel finale trova il suo compimento più puro, la magia scaturita, e la ragione del perché a Cannes 43 venne insignito di una sorprendente Palma d’Oro.

Fu una scelta dell’allora Presidente di Giuria Bernardo Bertolucci che ne rimase assolutamente travolto e che alla cerimonia di premiazione, quando annunciò il nome del vincitore, i pochi e sparuti applausi furono come travolti dal roboante suono di fischi, insulti e sghignazzi. Nonostante il 19 maggio 1990, il giorno della prima mondiale a Cannes, il film fu accolto da applausi scroscianti, si creò una coltre d’odio tale intorno a Cuore Selvaggio che era come se tutti desiderassero solo vedere Lynch fallire. Su ammissione dello stesso Gifford: «Tutti i giornalisti cercavano di creare polemiche e farmi dire qualcosa come ‘Questo non è per niente come il libro’ o ‘Ha rovinato il mio libro’. Penso che tutti, dal Time a What’s On in London, siano rimasti delusi quando ho detto: Questo è fantastico. Questo è meraviglioso. È come una grande, oscura commedia musicale».

Più che la ricezione mista di critica e addetti ai lavori, la cosa sorprendente del vedere Cuore Selvaggio a Cannes era che ha perfino rischiato di non esserci. Che ci crediate o meno la post-produzione del film fu completata da Lynch il giorno prima della presentazione ufficiale. Come se non bastasse, le proiezioni di prova organizzate dalla The Samuel Goldwyn Company furono un autentico disastro. Ce ne furono due, durante la prima circa ottanta persone se ne andarono nel pieno della scena di tortura di Johnnie Farragut (Harry Dean Stanton), nella seconda il numero salì a cento. In quel momento Lynch comprese come: «Quella scena stava uccidendo il film. Quindi la tagliai al punto che fosse potente ma che non facesse scappare la gente dal cinema. Ma quello era parte di ciò di cui parlava Cuore selvaggio: cose davvero folli, malate e contorte che succedevano».

Quindi la Palma d’Oro, l’arrivo nelle sale statunitensi il 17 agosto dello stesso anno dove il film incasserà 14 milioni e mezzo di dollari nel solo mercato domestico, la sola nomination agli Oscar 1991 per Diane Ladd come Miglior attrice non protagonista, e la certezza di come, nonostante una carriera invidiabile che oggi ci teniamo a ricordare in ogni sua sfaccettatura, Cuore Selvaggio rimane una magnifica unicità dell’opus lynchiano – oggi più di ieri, trentacinque anni dopo – un film straordinario e oramai mitologico e che vi invitiamo a rivedere al più presto.
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