ROMA – Chi mai avrebbe potuto immaginare un cambio di passo così radicale nel cinema di Paul Schrader, capace di dimenticare la violenza degli uomini e della strada – intesa come universo di criminalità, sporcizia, abbandono e perdizione -, mettendo in luce esclusivamente le conseguenze dell’amore e della menzogna? Pochi, forse nessuno. Eppure la menzogna non è elemento estraneo al cinema ultimo di Paul Schrader, basti pensare alla trilogia dell’uomo solitario, altrimenti definita “degli uomini rotti”. Destini non scritti, il cui passato resta celato nelle ombre delle oscurità, fino allo svelamento e alla catarsi violenta e in qualche modo sensazionale, dunque particolarmente attesa dallo spettatore, curioso d’osservare il radicale ritorno alla natura delle origini dell’uomo. Molto meno invece al nuovo, al cambiamento e alla volontà di ripulirsi. Ecco perché gli uomini rotti. I pezzi non tornano mai davvero a ricomporsi tra loro e ciò che resta è la rottura, il crollo e in qualche modo la fine. Si potrebbe dunque ragionare sulla natura terminale del cinema di Schrader, che in Oh, Canada! – I Tradimenti, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Russell Banks, trova la sua definizione più completa e trasparente.

Eeppure questo 23° lungometraggio da regista è qualcosa di ancora differente: un’indagine sulle colpe degli uomini, che sfuggono allo sguardo, ma non all’obiettivo della cinepresa e il cinema se ne fa carico, imprimendole nella memoria dapprima individuale e poi collettiva, così da impedire che l’uomo dimentichi, ricordando per sempre i propri errori, perdonandosi forse, oppure no. Jacob Elordi (Schrader ne coglie immediatamente la natura seducente. In un primo momento esclusivamente del corpo e solo in seguito dello sguardo, sfruttandolo abilmente, senza mai ricorrere alla provocazione) e Richard Gere (l’elemento più complesso del film gli appartiene, scordate dunque il mito di American Gigolò e preparatevi ad un ruolo prepotentemente metaforico, poiché Gere incarna la colpa che macchia la memoria e il vissuto, tanto da impedirgli di sopravvivere, dunque d’amare) sono l’uno il doppio dell’altro, Leonard Fife, straordinario documentarista mentitore. Interrogato – o peggio, indagato e sezionato – dalla macchina da presa di due ex studenti, nient’affatto interessati alla produzione cinematografica del loro mentore, piuttosto alla doppia o tripla (e così via) vita di quest’ultimo.

Sempre in bilico tra menzogna e realtà, accadimento effettivo registrato dalla memoria e dal pensiero e ricostruzione invece immaginaria e fittizia, Fife non può più perdonarsi. Non c’è più tempo, non resta dunque che svelare le carte. Come detto, un lungometraggio anomalo e per certi versi estraneo alla nota produzione registica (ma anche da sceneggiatore) di Paul Schrader, eppure il male che gli uomini (si) fanno, non è soltanto quello della strada, della criminalità, dunque della violenza. Ma anche quello generato dalla menzogna, dapprima innocente e poi sempre più diabolica e vigliacca. L’amore che non è mai davvero tale, perciò illusione pura, cui inevitabilmente segue la fuga e la necessità di ricostruirsi altrove, abbracciando altri corpi, perdendosi in altri sguardi, fino a scordare l’origine, la causa della fuga e forse perfino della paura. Dove tutto è cominciato e dove probabilmente, un lascito è rimasto in attesa. Un lascito destinato a tornare e dolorosamente a parlare. Oh, Canada! è imperfetto, intimidito dalla portata letteraria del romanzo di Banks (eppure, non è la prima volta che Schrader si confronta con questo autore. Ci ricordiamo di Affliction?) e lo si evince dal pudore e dall’estrema fedeltà, che conduce Schrader, quasi immediatamente a non aggiungere alcunché, pur potendo. Scansando il rischio potenziale, derivato da eventuali cambi di ritmo, svelamento e provocazione.

Eppure il corpo di Jacob Elordi – Emerald Fennell e Saltburn ce lo insegnano bene – parla, eccome se parla. Schrader però sembra accorgersene soltanto nel finale, scoprendo la sessualità e il “tradimento”, che è però fortemente emotivo e mai carnale, sottolineando – pur non volendo – l’ambiguità della traduzione del titolo italiano, I Tradimenti. Niente più di lontano da ciò che il film di Schrader di fatto è. Non ci sono tradimenti, ma illusioni. Non ci sono menzogne, ma ricostruzioni. Un viaggio estremamente personale, intimo e doloroso alla fine dei giorni e del tempo concesso agli uomini. Quello dedicato alla definitiva espiazione delle colpe e alla crudele, eppure salvifica distruzione dei castelli di carte, tanto della memoria, quanto dei corpi. La fuga salva la vita e l’amore? Non sempre, non ovunque. Forse in Canada. Oltre il confine, sulla strada, con il passato alle spalle e il presente all’orizzonte. Leonard Fife suggerisce il contrario, Schrader non sembra fare lo stesso, preferendo la liberazione, l’ampio respiro, il sollievo e forse il perdono. Cosa ne penserebbe Russell Banks? C’è un modo per scoprirlo. Dalla carta allo schermo…
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