ROMA – Ma ve lo ricordate? Si apriva e si chiudeva con un primo piano Midsommar, secondo film diretto da Ari Aster dopo il successo (inatteso) ottenuto dal suo Hereditary, un debutto da 79 milioni di dollari al botteghino e la consacrazione di nuovo autore del cinema americano, adesso al lavoro con Joaquin Phoenix come vi avevamo raccontato qualche giorno fa qui. Quel primo piano era fisso sul volto di Dani Ardor, interpretata da Florence Pugh (che attrice meravigliosa), giovane studentessa di psicologia intrappolata in una relazione infelice con Christian Hughes (Jake Reynor) la cui vita viene stravolta da una tragedia familiare.
Un lutto che è anche un esclusione: Dani è rimasta sola, non appartiene più a nulla e a nessuno, non ha niente. E non appartiene tantomeno più a quel fidanzato che resta al suo fianco solo per decenza umana e che lei però decide di seguire, insieme ai suoi amici, per partecipare ad un festival estivo in un villaggio svedese, un luogo in cui dovrebbe provare a dimenticare. Saranno nove giorni di antichi rituali – ripetuti ogni novant’anni – che immergeranno Dani e tutti gli altri in un’atmosfera irreale fatta di sole perenne e fiori tra i capelli, cerimonie e canti. Insomma, quasi una rinascita. O no?
No. Perché il villaggio di Hårga, con le sue geometrie simmetriche e le tradizioni secolari, mostra ben presto un volto sinistro e ferreo, spezzando la presunta armonia suscitata dall’apparente candore iniziale. Ed è proprio qui che risiede uno dei punti di maggiore interesse di Midsommar e della visione di Aster. Come già sottolineato per Hereditary, ma anche per neo horror come The Witch di Robert Eggers o Get Out e Us di Jordan Peele, il concetto stesso di orrore viene rivoluzionato e modellato per aprirsi a strade nuove, mischiando i generi o ribaltandoli, ma cambiando anche visione estetica.
Perché, altrimenti, in quale altro modo si potrebbe pensare oggi di realizzare un horror? Così Midsommar fonde mito e finzione in una fiaba macabra illuminata dalla luce accecante di Pawel Pogorzelski – che si è ispirato addirittura ai film di Powell e Pressburger – in cui l’orrore non si nasconde nell’oscurità ma dietro i sorrisi degli abitanti di Hårga. Come per Hereditary, anche Midsommar parte da un’esperienza autobiografica – la fine di una relazione – per tramutarsi in una riflessione più ampia. Tra simbolismi e rituali pagani, il film parla di lutto e del suo faticoso – fisicamente e psicologicamente – processo di elaborazione, della conclusione di un legame sentimentale ma anche dell’eredità culturale e dell’appartenenza sociale.
Il villaggio, con le sue regole e liturgie, respinge e abbraccia come suggerisce anche la colonna sonora di The Haxan Cloak (segnatevi il nome), divisa tra melodie armoniose e passaggi angoscianti. Dani che in quei nove giorni trascorsi ad Hårga festeggia il suo compleanno dimenticata dal suo ragazzo, rinasce simbolicamente tra gli abitanti del paesino svedese. Una regina dalla corona di fiori che consuma la sua vendetta e torna ad appartenere a se stessa e agli altri attraversando il dolore, tra urla e lacrime che lasciano spazio a quell’ultimo primo piano. Non più orfana, non più sola.
- Volete (ri)vedere Midsommar? Lo trovate su CHILI (anche il Director’s Cut)
SOUNDTRACK | Qui un brano della colonna sonora:
Lascia un Commento