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Giorgio Diritti: «Il mio cinema, Ligabue, il trionfo ai David. Ma non dimentico Kieślowski…»

La pandemia, i sette David, i suoi miti e Lubo, il nuovo film: il regista si racconta a Hot Corn

Giorgio Diritti con il David come miglior regista. Foto Luca Dammicco e Emanuele Manco.

ROMA – «Riposo? Macché, devo partire per i sopralluoghi del nuovo film». Giorgio Diritti tira un sospiro mentre risponde al telefono dopo una giornata molto lunga, in bilico tra l’euforia dei sette David di Donatello vinti con Volevo nascondermi e le idee già pronte per il nuovo film, Lubo, tratto da Il seminatore di Mario Cavatore. «Sono già al lavoro, dobbiamo chiudere alcune cose e poi vedere quando iniziare a girare». Non è però il momento del futuro, ma del presente, viste le dimensioni che ha assunto il trionfo del suo film, il quarto in quindici anni, partito dalla Berlinale sedici mesi fa e arrivato ora al trionfo dei David. «Un viaggio tribolato quasi quanto la vita di Ligabue…», ride.

Giorgio Diritti con Carlo Conti durante la premiazione. Foto di Luca Dammicco e Emanuele Manco

Da Berlino a Roma, in mezzo però c’è stata una pandemia…
«E ci sono stati momenti di grande fatica, lo confesso, alternati a momenti di gioia e riconoscimento che hanno fatto bene a tutti. Certo, non è stato facile, all’apice della gioia del premio vinto alla Berlinale, fermarsi e non avere il privilegio di accompagnare il film, condividerlo con il pubblico in sala».

Ma vincere sette David che effetto le fa?
«Ovviamente è una felicita enorme, ma sono contento però che il riconoscimento sia andato non solo al film e al regista, ma anche a tanti componenti della troupe che hanno reso possibile e hanno mantenuto l’alta qualità di Volevo nascondermi. Ho avuto un’equipe di lavoro splendida, di grande spessore artistico ma anche umano, mi piace sottolinearlo. Se mi aspettavo sette premi? diciamo che quando ho visto tutte quelle candidature mi sono preoccupato, ma avevo fiducia…».

Volevo nascondermi
Elio Germano e Giorgio Diritti sul set di Volevo nascondermi.

Il suo viaggio è decisamente atipico nel cinema italiano: il debutto arrivò tardi, nel 2005, a 46 anni. con Il vento fa il suo giro. C’è stato un momento in cui temeva di non riuscire?
«In realtà ho sempre avuto una forte convinzione riguardo ai miei progetti, altrimenti avrei rinunciato, ma non era facile convincere i produttori a dare fiducia a quello che avevo in mente. Non a caso per Il vento fa il suo giro alla fine ho dovuto espormi io, mettendoci i soldi. I miei film sono un po’ particolari, escono dai percorsi abituali, non sempre è facile. Ricordo ancora che quando parlavo dell’idea di girare un film su Marzabotto, poi diventato L’uomo che verrà, mi guardavano strano…».

Dovesse ringraziare un regista tra quelli che l’hanno influenzata?
«Ce ne sono tanti, potrei fare un elenco molto lungo, da Kubrick alla poetica di Olmi, ma se devo dirne due che hanno smosso le mie emozioni e mi hanno fatto vedere tutta una serie di cose che non avevo mai immaginato, allora dico Fellini e Kieślowski. Lo so, sono un po’ diversi, ma fa lo stesso. Ci tengo a citare soprattutto Kieślowski per la dimensione visionaria e l’aspetto psicologico del suo cinema, penso a film come La doppia vita di Veronica, la Trilogia o il primo episodio de Il Decalogo. In Kieślowski e Fellini c’è la capacità di raccontare il reale, ma con un filtro particolare che ho cercato anch’io, a modo mio».

Krzysztof Kieślowski in strada sul set di Film Rosso.

L’ultima domanda è d’obbligo sul futuro: che cinema sarà?
«Io credo, e spero, che questa chiusura diventi un ricordo e penso che la fruizione in sala mantenga ancora una forza e una magia che non possono essere intaccati. Vedo anche che la gente ha bisogno e nostalgia di uscire, trovarsi, vedersi e penso che il futuro del cinema sarà migliore. Lo streaming? Credo si debba trovare un giusto equilibrio: non ha senso fare la competizione tra sala e piattaforme perché alla fine perderebbero entrambi, mentre può esserci un’opportunità se si riesce a trovare un punto di contatto…».

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