ROMA – «Se dovessi segnare tre dei miei lavori migliori? Beh, direi innanzitutto Bird. Sono cresciuto molto come artista in quel film e penso, inoltre, che è stato il momento in cui il pubblico ha iniziato a prendermi in considerazione. Poi però direi Ghost Dog – Il codice del samurai. Lì ho imparato a capire qualcosa di me nel silenzio, di come sono capace di comunicare certe cose senza fare molto. E poi direi L’ultimo re di Scozia che sposa in modo forte l’interno e l’esterno riunendo in un unico personaggio tutto ciò che ho imparato in questo mestiere». Così parlò Forest Whitaker un paio d’anni fa a proposito dei più importanti film a cui abbia mai preso parte, rivelando il peso specifico del film diretto da Jim Jarmusch.

Da una parte quindi Bird, biopic su Charlie Parker di Clint Eastwood – sempre troppo poco citato da critica-e-pubblico – che valse a Whitaker il premio come attore a Cannes, dall’altra un altro biopic. L’ultimo re di Scozia di Kevin Macdonald incentrato sulla figura controversa del dittatore Idi Amin Dada, che nel 2007 valse a Whitaker il primo (e unico) Oscar come protagonista. Nel mezzo ecco Ghost Dog, che assieme al precedente Dead Man costituisce il periodo più spirituale oltre che il cuore pulsante, l’asse, del cinema di Jim Jarmusch. In entrambe le pellicole, un western e un gangster neo-noir, Jarmusch racconta infatti di uomini ai margini della società – William Blake (Johnny Depp) e Ghost Dog (Forest Whitaker) – stipati ai confini del mondo conosciuto.

Uomini che individuano un percorso di vita fatto di elevazione spirituale che permette loro di raggiungere un nuovo livello esistenziale oltre che una rinnovata coscienza nell’affrontare e infine accogliere la morte. Per Whitaker, manco a dirlo, quella di Ghost Dog fu la performance della vita. Specie perché Jarmusch gli offrì su un piatto d’argento un agente scenico semplicemente memorabile dichiaratamente scritto solo e soltanto per lui. Uno spietato assassino a sangue freddo guidato dai principi morali ed etici dell’Hagakure di Yamamoto Tsunemoto che vive, isolato, in una baracca sulla sommità di un palazzo in periferia e in simbiosi con una truppa di colombi addomesticati, eppure capace di trasmettere calore e umanità istantanei come pochi altri personaggi degli anni Novanta hollywoodiani.

Per dovere di cronaca, l’Hagakure di Tsunemoto (lett. Annotazioni su cose udite all’ombra delle foglie nda) è un testo filosofico del XVIII secolo contenente l’antica saggezza dei samurai, il loro codice di condotta, da cui emerge lo spirito del Bushidō. Non è da intendersi però, unicamente, come una raccolta di principi morali. Nell’Hagakure è possibile leggere consigli pratici, norme comportamentali e riflessioni sulla morte intesa non tanto come semplice estinzione della vita ma come senso psicologico di eliminazione dell’Io. Per secoli ha costituito la base etica del popolo giapponese finendo con l’essere applicati nel periodo Tokugawa, ovvero tra il Seicento e l’Ottocento giapponese. In preparazione a Ghost Dog, Whitaker ha finito con il vivere fianco a fianco con l’Hagakure.

Su sua stessa ammissione: «Ho iniziato a leggere l’Hagakure assieme ad altri libri e ho guardato molti jidai-geki. Ho cercato di applicare la mentalità samurai più di ogni altra cosa. Nel seguire l’antico libro è se Ghost Dog fosse come fosse in un continuo stato di trance». Una performance da sogno cucita su di una narrazione che è puro postmodernismo colorato e creativamente vivace nel suo irripetibile incontro citazionista tra tradizione e innovazione. E Jarmusch lo fa tracciando il solco di un racconto che è (in)diretto omaggio al melvilliano Frank Costello faccia d’angelo (Le Samouraï in originale nda) nelle svolte narrative, nei sapori e nei silenzi scenici spezzati, quest’ultimi, soltanto dall’incessante e straniante colonna sonora di RZA dei Wu Tang Clan opportunamente campionata.

A questo va sommato il registro scelto da Jarmusch per le componenti dialogiche di Ghost Dog: tanto denso e stratificato nel rievocare i dettami dell’Hagakure e le suggestioni della tradizione orientale, quanto leggero e ironico nel raccontare di cartoni animati e gusti musicali degli involontariamente comici mafiosi in fatto di hip hop e r’n’b. Puro Jarmusch insomma, specie nel ridicolizzare il clan di Ray Vargo (un granitico Henry Silva) raccontandone come di un’organizzazione basata su codici d’onore (parecchio) flessibili, piena di pregiudizi verso tutto ciò che è diverso e incapace di darsi una linea di condotta rigorosa. E poi c’è la regia, che vede Jarmusch comporre rigorosi tasselli filmici attraverso movimenti di cinepresa fluidi che la magia del montaggio finisce con il dischiuderne tutta la forza e il potenziale inespresso.

In quel momento Ghost Dog va a comporsi di immagini su più livelli grazie a triple se non perfino quadruple dissolvenze incrociate di cui Jarmusch si serve per manipolare il tempo scenico viaggiando continuamente tra passato e presente narrativo nell’arco di una sola e semplice sequenza. Non aspettatevi però una narrazione dal ritmo galoppante. Ghost Dog è Jarmusch anche nel ritmo. Cadenzato, consumato, con cui intessere una narrazione che racconta della solitudine del killer riflettendo sull’ineluttabilità del destino, della caducità della vita e dell’onore dei samurai anche nei convulsi tempi moderni. Esattamente ciò che deve fare un guerriero degno di questo nome: «Ghost Dog è un guerriero e segue un codice da guerriero. Agisce in situazioni violente come deve fare un guerriero».

Secondo Jarmusch però c’è un altro livello di lettura dell’inerzia del suo agente scenico: «Essere integro, avere dualità e conoscere i lati di tutto. Ghost Dog penso ne sia consapevole. Non è contento, ma è forte in ciò che sa essere l’ordine della sua vita. Non credo che consideri nemmeno quello che fa come un atto violento, è solo un’estensione di qualcosa che deve fare per mantenere l’ordine in base al quale vive. La sua America è la sintesi di molte culture diverse, non in conflitto ma come parte di una cosa sola». Un’opera straordinaria, capace di imprimere ogni momento filmico della sua vivace narrazione nella mente dello spettatore, come in poche altre occasioni il cinema ha saputo fare.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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