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Terence Hill: «La mia religione, i ricordi con Bud Spencer e la lezione di Carlo Carretto»

La seconda parte del nostro incontro con l’attore, tra gli ottant’anni e Più forte ragazzi

Terence Hill in una scena di Don Matteo.

MILANO – In una società frettolosa e distratta come quella in cui viviamo, gli appellativi icona o leggenda vengono assegnati spesso velocemente e senza riguardo. L’uomo che attraversa la hall d’albergo con un cappello da baseball calato sulla testa lo è senza tema di smentita, un attore diventato simbolo per quasi tre generazioni, diventato negli anni un fumetto, un murales, molte magliette. Se nella prima parte del nostro incontro Terence Hill raccontava di Henry Fonda, Sergio Leone e del suo nuovo film, Il mio nome è Thomas – ora in digital su CHILI – qui continua a mescolare presente e passato, passando da Bud Spencer a Carlo Carretto, religioso italiano molto caro a Hill, tanto da essere citato proprio nell’ultima pellicola.

1970: con Bud Spencer in Lo chiamavano Trinità…

Ma Carlo Carretto come entra nella sua vita?

«Quando abitavo in America, negli anni Ottanta, un giorno mia moglie mi consigliò un libro: Lettere dal deserto. Era di Carlo Carretto. Rimasi colpito dal suo modo di esprimere il cristianesimo in maniera diretta, semplice. Le sue parole evitavano la retorica che spesso rende pesante il cattolicesimo. In quelle pagine c’era una parte che mi piaceva molto e su cui ho voluto costruire una scena de Il mio nome è Thomas. Purtroppo non sono mai riuscito a incontrare Carretto, è morto nel 1988, ma l’aspetto singolare della sua storia è che mentre negli Stati Uniti c’erano venti libri suoi tradotti in inglese, qui in Italia erano molto difficili da trovare…».

Carlo Carretto in una foto scattata in Africa.

Si è dato una spiegazione?

«Carretto fu a capo dell’Azione Cattolica per molti anni, ma non ebbe mai paura di esprimere opinioni dissonanti con la Chiesa, non aveva timore di dire la sua. Nel 1974, all’epoca del referendum sul divorzio, per esempio, non fece mistero di essere a favore proprio del divorzio e questo gli creò parecchi problemi. Adesso, grazie anche al cambiamento di Papa Francesco, il suo messaggio sta lentamente ritornando alla luce».

Ne Il Gattopardo di Luchino Visconti. Era il 1963.

In carriera lei ha girato oltre settanta film, da Il Gattopardo a Don Camillo. Le capita mai di rivedere i suoi film?

«No, in genere no. Non vado nemmeno a cercarli. Però se passa qualcosa in televisione e mi ci trovo davanti allora mi fermo. Mi capita soprattutto con i film con Bud: mi diverto a vedere le scazzottate, mi fanno divertire come allora. Titoli come Altrimenti ci arrabbiamo o Trinità continuano ad avere successo oggi e se mi chiede qual è il segreto onestamente non so rispondere. Credo sia una combinazione di fattori: sicuramente una naïveté tipica degli anni Settanta e Ottanta, un’epoca in cui le scazzottate facevano ridere, non preoccupare. Poi la comicità: indubbiamente quei film hanno ancora una gioia dentro che non è mai scomparsa. E poi la combinazione tra me e Bud, una cosa casuale quanto fortunata. Bud diceva sempre che se avessero costruito la nostra coppia a tavolino avrebbero fallito miseramente. Fu un meraviglioso caso».

Con Bud Spencer in Spagna per Altrimenti ci arrabbiamo. Era il 1974.

Alcuni film, penso a Più forte ragazzi, hanno anche assunto significati che allora non avevano: dal messaggio ecologico alla globalizzazione.

«Per Più forte ragazzi rimanemmo cinque mesi in Colombia. Fu un’esperienza molto forte con un regista, Giuseppe Colizzi, che conoscevamo molto bene, perché ci avevamo girato Dio perdona… io no!, I quattro dell’Ave Maria La collina degli stivali. Una persona molto colta. In quegli anni giravamo sempre in luoghi diversi, lontani, Sud Africa, Sud America, posti visivamente distanti e anche per questo penso che quei film si siano datati poco».

Plata e Salud: in Colombia per Più forte ragazzi, 1972.

Cosa le manca oggi di Bud Spencer?

«Mi manca la gioia di vederci. La gioia nell’incontrarsi. Sento però che il nostro legame continua, nonostante tutto, in modi differenti. Il mio nome è Thomas è dedicato a lui perché ho ricevuto la notizia della sua morte in Almería, il luogo in cui lo avevo conosciuto. Quando suo figlio mi ha detto che se n’era andato, alla tristezza è subito subentrata una gioia profonda, perché sentivo che mi stava dicendo qualcosa, perché ero lì cinquant’anni dopo il nostro primo incontro. La dedica del film non poteva che essere per lui. La nostra era un’alchimia magica: avessero messo insieme Orson Welles e Paul Newman non avrebbero funzionato così bene…».

Trinità e Bambino: il fumetto dedicato a Terence e Bud.

I vostri film sono molto amati in Germania, Paese dove anche Il mio nome è Thomas è andato molto bene…

«Io e Bud siamo degli eroi in Germania, anche in Austria. Il mio nome è Thomas ora esce in Russia, in Polonia, ce lo hanno chiesto in molti altri Paesi. In Ungheria hanno anche dedicato una piazza con una statua a Bud. Mi hanno anche detto che vorrebbero farne una a me, ma ho spiegato loro che non c’è fretta. Facessero con calma…».

Ma da spettatore cosa guarda? 

«Mi piace tutto. I classici, i film con Robert Redford, anche gli italiani. Il mio film preferito? In questo momento dico Gran Torino di Clint Eastwood, un ruolo che mi sarebbe piaciuto interpretare».

Clint Eastwood in Gran Torino.

Tornerebbe al cinema solo come attore?

«Sì, se c’è un ruolo adatto sì, mi piacerebbe molto, ma mi hanno chiesto solo cameo, apparizioni brevi, ma non mi interessa. Se c’è un bel personaggio da interpretare sì, altrimenti no. Non ne ho bisogno. Adesso stanno scrivendo una nuova stagione di Don Matteo che probabilmente gireremo in aprile e poi uscirà nel 2020. Poi ho acquisito i diritti di un libro americano e vorrei girarlo, se riesco. Non è semplice: anche Il mio nome Thomas dal punto di vista finanziario è stato complicato».

Ha appena compiuto ottant’anni. Ha qualche rimpianto?

«No, nessuno. Direi che è andata bene così..».

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