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Quella volta con Ryuichi Sakamoto sul tetto del palazzo del cinema di Venezia

Un’intervista, un dialogo, quelle parole: un piccolo ricordo per celebrare un artista enorme

Ryuichi Sakamoto era nato a Nakano, in Giappone, nel 1952.

MILANO – Accadde poco meno di dieci anni fa, una sera di settembre durante la Mostra del Cinema. Dopo qualche giorno di trattativa tra mail, uffici stampa e agente ci ritrovammo improvvisamente sul tetto del palazzo del cinema del Lido di Venezia a guardare l’orologio, in attesa di Ryuichi Sakamoto. Incredibile sì, ma vero. Dall’alto si sentivano le voci salire confusamente dal red carpet, mentre in una stanza vicina si era riunita la giuria che quell’anno avrebbe premiato – non senza polemiche – Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Il presidente di giuria? Bernardo Bertolucci che, tra Pablo Larraín e Carrie Fisher, aveva voluto proprio il compositore giapponese, suo collaboratore e amico dai tempi dell’Oscar de L’ultimo imperatore. Dopo qualche minuto di attesa, Sakamoto arrivò con la sua aria da eterno ragazzo, un pugno di capelli grigi in testa e una maglietta nera addosso. Eravamo solo noi due, nessun altro. Un incontro surreale e poetico con lui che metteva in fila le parole con calma, le pesava, le studiava e poi le lasciava andare con una grazia infinita, accompagnate da un sorriso.

Ryuichi Sakamoto
Ryuichi Sakamoto in una scena di CODA, il suo documentario del 2017.

Oltre che in giuria, quell’anno Sakamoto era presente alla Mostra anche con un classico riproposto dalla Biennale: Furyo, il film che girò con Nagisa Oshima nel 1983 e da cui partì poi tutta la sua seconda vita artistica. Anche la nostra conversazione iniziò da quel film: «Ricordo bene quei giorni sul set», ci disse, sistemandosi gli occhiali. «Era il mio debutto come attore e anche come compositore. Mi ritrovai a recitare a fianco di David Bowie e cercai di fare del mio meglio, anche se non fu facile. Non ero bravo a recitare. Ma fu grazie a quel film che poi conobbi Bernardo. Mi disse che la scena tra me e David era la scena d’amore più bella di tutti i tempi…». Oltre alla credibile performance d’attore, da lì ne uscì anche uno dei temi più celebri del cinema recente (Merry Christmas, Mr. Lawrence), primo passo di una nuova artistica che lo avrebbe poi portato dal 1987 a lavorare con Bertolucci – che a un certo punto dell’intervista apparì in lontananza con la sua sedia a rotelle sulla terrazza – anche se come attore avrebbe replicato poche volte, memorabile l’apparizione per Abel Ferrara in New Rose Hotel nel 1998.

Ryuichi Sakamoto
Ryuichi Sakamoto in Furyo di Nagisa Oshima. Era il 1983.

«Bernardo?», ci spiegò, «Bernardo è una figura importante per me, a volte è come un padre, a volte come un fratello maggiore, altre volte lo vedo come un sensei. Il mio rapporto con l’Italia è da sempre filtrato attraverso di lui, dal primo incontro alle collaborazioni sui tre film che abbiamo fatto (L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto e Piccolo Buddha, nda). Qual è la mia colonna sonora preferita tra quelle dei suoi film? In realtà quella di Novecento di Ennio Morricone (rise, nda). Tra le mie senza dubbio ho un legame profondo con quella di Piccolo Buddha, per la sua struttura, per il significato che al tempo vi riposi». Da Oshima e Bertolucci, poi Pedro Almodóvar, Brian De Palma, Volker Schlöndorff (su Il racconto dell’ancella molto prima di The Handmaid’s Tale) fino a Iñárritu e Revenant. Gli chiedemmo come scegliesse i film da musicare: «In realtà la scelta è sempre duplice: la mia e quella dei registi. Ovviamente nel corso degli anni non ho accettato tutte le proposte che mi hanno offerto e per un semplice motivo: scrivere per il cinema richiede tempo ed è un lavoro che deve andare incontro alle esigenze del regista…».

Ryuichi Sakamoto
Sakamoto in un altro momento di CODA.

Quando parlava Sakamoto non aveva mai l’aria del maestro o del grande compositore pronto a impartire lezioni, anzi, la sua umiltà era tale da mettere quasi in imbarazzo. Ad un certo punto ci rivelò anche una cosa che mai avremmo sospettato: «La sa una cosa?», ci disse, «Questa è la mia prima volta a Venezia. Non ci ero mai stato prima. Ne sono molto affascinato, anche se vorrei passare più tempo a fare il turista, ma non è possibile. Ho il privilegio di far parte di questa Mostra da giurato e sono lusingato. Ma con l’Italia ho un rapporto meraviglioso, ci vivrei, anzi, fosse per me terrei i miei concerti solo in Italia, costringendo il pubblico a venire qui. Luoghi, cibo, gente: tutto qui è meraviglioso…». Alla fine dell’intervista gli chiedemmo che effetto gli facesse ripensare al suo percorso, dalla Yellow Magic Orchestra e da Thousand Knives, primo disco pubblicato nel 1978, fino a quei giorni tra concerti e anteprime. La risposta, riascoltata oggi dopo la sua scomparsa, è una lezione da tenere a mente: «Il mio percorso artistico è la mia vita. La vita stessa è un viaggio, no? Dobbiamo essere pronti ad accogliere quello che succede, a farci influenzare, a seguire i percorsi che può prendere improvvisamente la nostra esistenza. Non possiamo sapere cosa accadrà…».

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