ROMA – Francis Scott Fitzgerald era un genio, sì, e lo era a tal punto che riusciva ad esserlo perfino quando sbagliava. Un giorno scrisse che non esiste il secondo atto di una vita americana, c’è solo un colpo e poi basta. Finito. Ecco, il percorso di Leroy Van Cleef Junior – meglio conosciuto dal mondo come Lee Van Cleef – lo smentì categoricamente con la sua esistenza perché ebbe almeno tre atti nella sua vita e durante la sua carriera. Possibile? Sì. Presenza distintiva dallo sguardo penetrante e caratteristiche volpine – notate il volto – l’attore solcò gli schermi per quasi quarant’anni, faccia immediatamente riconoscibile, e nei suoi novanta crediti cinematografici mostrò una sorprendente e ampia gamma di scelte, dallo sci-fi ai noir passando per i grandi classici, i B Movies e – nemmeno a dirlo – per gli Spaghetti Western che gli diedero gloria imperitura.
Nato il 9 gennaio del 1925 nel New Jersey, Lee passò dalla scuola direttamente alla Marina dove prestò servizio su un dragamine dal 1942 per tutta la durata della Seconda guerra mondiale. Risolta quella piccola faccenda, il giovanotto si trasferì poi dal palcoscenico di un teatro al cinema, dopo essere stato notato casualmente da Stanley Kramer in una rappresentazione di Mister Roberts. Lo portò alla corte di Fred Zimmerman che nel 1952 lo mise in uno dei film più importanti del secolo: Mezzogiorno di fuoco, in cui appare nel ruolo di Jack Colby, un cowboy (ovviamente) malvagio. Anche se il pericolo dello stereotipo del villain era sempre presente, Lee cercò poi di apparire in una varietà di pellicole diverse, scegliendo ruoli diversi. Un esempio? Ebbe un ruolo di rilievo come cecchino militare ne Il risveglio del dinosauro, uno dei migliori primi film sui mostri con gli effetti speciali di un signore di nome Ray Harryhausen.
Oltre ai western sia in televisione che sul grande schermo, Lee interpretò però anche molti ruoli significativi in alcuni dei migliori film noir dell’epoca come Il quarto uomo (1952), Squadra omicidi con Edward G. Robinson (1953) e La polizia bussa alla porta (1953), ovvero tre classici del genere in cui il contributo di Lee è spesso di una malizia immaginifica e quasi gioiosa. Il ruolo del suo complice che ride sardonico avrà lunga vita e finirà poi anche in altri due classici western assoluti: Sfida all’O.K. Corral (1957) e L’uomo che uccise Liberty Valance (1962). Nel 1958, Lee però fu quasi ucciso in un incidente automobilistico e l’infortunio al ginocchio che ne ebbe gli causò molte sofferenze, portandolo tra ospedali e alcolismo. Disperato di non riuscire a fare mai nulla oltre al terzo cattivo da destra, iniziò a dipingere, aprì un’attività di decorazione d’interni e quando un tizio dal nome strampalato gli chiese di incontrarsi in un hotel, si presentò pensando di presentare un preventivo per un lavoro di pittura.
Invece no. Quel tizio era Sergio Leone ed era venuto appositamente dall’Italia perché lo aveva notato in alcuni telefilm e voleva il suo sguardo dentro il suo cinema. Voleva il suo aspetto, ma non voleva che interpretasse il cattivo. Almeno non all’inizio. Così, eccolo in Per qualche dollaro in più, in cui interpreta il colonnello Mortimer, un uomo assetato di vendetta che fa squadra con l’uomo senza nome di Clint Eastwood per affrontare la banda dell’Indio, grande personaggio dipinto da Gian Maria Volonté. Una performance superba e (finalmente) sostanziale che lo condusse ad un altro capolavoro: Il buono, il brutto, il cattivo, l’apice del genere. Il suo personaggio, Sentenza, era un villain – certamente – ma con profondità, una buona dose di spirito e sadismo. Da quel momento in poi, Lee sfruttò la nuova visibilità con una serie di Spaghetti Western in cui era il primo credito sul poster, eroe vestito di nero, in titoli come La resa dei conti (1966), Da uomo a uomo (1967) e Ehi amico… c’è Sabata. Hai chiuso! (1969), ma anche Il grande duello (ve ne abbiamo parlato qui), tanto amato da Tarantino.
Tornato negli Stati Uniti dopo la gloria italiana, ottenne alcuni buoni ruoli, tra cui Barquero a fianco di Warren Oates e il personaggio principale in I magnifici sette cavalcano ancora, ma fu ancora in Europa che continuò a trovare lavoro, tanto che girò tre film con Antonio Margheriti a metà anni Settanta. Finita qui? No, perché le vite di Lee Van Cleef ancora non erano finite: John Carpenter qualche anno dopo, siamo nel 1981, gli regalò il ruolo del commissario Bob Hauk in Fuga da New York, altro momento altissimo della sua carriera. Continuò a lavorare fino alla morte, nel 1989, recitando in un telefilm chiamato Master e tornando in Italia per Il triangolo della paura a fianco di Donald Pleasance e ancora diretto da Margheriti. Quando morì – sorprendentemente – aveva solo 64 anni. Sì, sembrava più vecchio, anche quando era giovane. Se oggi andate sulla sua tomba, al Forest Lawn Memorial Park, a Los Angeles, troverete sulla sua lapide la frase che riassume le sue vite: “Best Of The Bad”. Il migliore dei cattivi. Lo fu per davvero.
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