MILANO – «Cause it’s a bittersweet symphony this life, Trying to make ends meet, you’re a slave to the money then you die…». Niente ha il sapore di fine anni Novanta quanto il finale di Cruel Intentions – Prima regola non innamorarsi con Ryan Phillippe, oppure di quei trailer incalzanti che venivano ripetutamente mandati in onda su MTV e sulle altre reti videomusicali, trascinati da canzoni che stavano scrivendo un’epoca, forse l’ultima in cui i poster, le facce, gli idoli erano gli stessi per tutti. Nessuno si creava la propria playlist su Spotify, nessuna serie o film si perdeva nel mare di Netflix, la stagione cinematografica si chiudeva a fine giugno e riapriva a fine agosto.

E durante l’estate del 1999, una generazione di adolescenti attendeva di vedere in sala la versione moderna de Le relazioni pericolose interpretata dal nuovo sex symbol Ryan Phillippe, dalla star di Buffy l’ammazzavampiri Sarah Michelle Gellar, dall’intrigante Selma Blair e dalla biondissima Reese Witherspoon. La compilation da ascoltare comprendeva Placebo, Fatboy Slim, Counting Crows, Skunk Anansie, Faithless e ovviamente The Verve di Richard Ashcroft, le cui più importanti hits erano tutte nella colonna sonora di Cruel Intentions.

In realtà, la pellicola di Roger Kumble non conserva particolari meriti, ma quell’attesa rimane vent’anni dopo un sentimento irripetibile, per molti sconosciuto. Per il quartetto di protagonisti il futuro ha riservato fortune diverse: la Witherspoon è diventata una diva di Hollywood, la Gellar è una produttrice che vive nella memoria dei nostalgici di Buffy, la Blair si è barcamenata tra prodotti medi prima di essere affetta, purtroppo, da sclerosi multipla. La fama di Ryan Phillippe invece si è lentamente sbriciolata.

Le responsabilità si devono forse attribuire al suo volto da eterno adolescente rubacuori, che non gli ha mai permesso di uscire dalle gabbie teen del cult So cosa hai fatto e dell’audace Studio 54 per ottenere ruoli più maturi. A dire il vero, dopo Cruel Intentions, Ryan ha fatto di tutto per rimanere sulla cresta dell’onda: si è sposato con la Witherspoon, ha provato con l’action (Le vie della violenza), con il neo-thriller virtuale (S.Y.N.A.P.S.E. – Pericolo in rete), ha recitato con maestri come Robert Altman (Gosford Park) e Clint Eastwood (Flags of Our Fathers).

Era anche nel cast corale di Crash – Contatto fisico di Paul Haggis, sorprendente vincitore dell’Oscar per miglior film. Mentre l’ex moglie Reese stregava l’Academy con la sua June Carter in Walk the Line, il pubblico però cominciava a dimenticarsi di lui. Gli anni passano, e la legge dello star system non aspetta. Phillippe ha dichiarato di essere da sempre una persona molto sensibile e di aver combattuto molte volte contro la depressione: «La mia sensibilità non ha aiutato la mia carriera da attore. Sono empatico, e mi è capitato troppo spesso di sentirmi triste».

Non tutto è andato in frantumi: al di là di qualche validissimo b-movie (Breach – L’infiltrato, The Lincoln Lawyer), un tentativo dietro la macchina da presa (il crime Catch Hell) e il successo in televisione della serie Shooter, Ryan ha fatto dono della sua dolcezza d’animo dedicandosi all’attività di padre – i rapporti con la Witherspoon sono rimasti abbastanza buoni proprio per il bene dei piccoli Ava e Deacon – e a molti progetti di beneficenza in Africa, oltre a essere ambasciatore del progetto Innocence, un’organizzazione che promuove l’utilizzo del DNA per scagionare gli incolpevoli di reati penali. Una vita tranquilla, insomma, da ragazzo bravo e fortunato: impensabile per tutti coloro che vent’anni fa lo identificavano come il moderno Valmont. In attesa di vederlo in The Sound of Philadelphia e Lady of the Manor.
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