ROMA – Fernando Di Leo firma il suo lavoro più celebre e uno dei film noir polizieschi italiani più famosi al mondo. Girato nel 1972 e prima parte di un’entusiasmante trilogia spirituale (Trilogia del Milieu) comprendente La Mala Ordina e Il Boss, Milano Calibro 9 – disponibile su Rarovideo Channel che trovate sia su Prime Video che su The Film Club – propone una galleria di personaggi caratteristici della società degli anni della contestazione. Come Ugo Piazza (Gastone Moschin) dagli occhi di ghiaccio e dalla mente lucida, l’imponente e impetuoso Rocco Musco (Mario Adorf), uomo d’onore e fedelissimo dell’Americano (Lionel Stander), la bellissima (e furba) Nelly (Barbara Bouchet), e Chino (Philippe Leroy), killer di professione solitario e misterioso. E tutti ruotano attorno alla scomparsa di un borsone contenente 300.000 dollari provenienti da traffici loschi gestiti dalla mala che li catapulteranno presto in un vortice di piombo, sangue e morte.
Sullo sfondo una Milano cupa e grigia, livida di smog e locali notturni al neon che li accoglie. Tutti personaggi disperati quelli di Di Leo, ambigui – consumati come la sigaretta nel frame finale – che devono decidere se essere cattivi o più cattivi, leali o sleali, per sopravvivere. Lo si legge nei loro occhi. Quelli azzurri e glaciali – disillusi – di Ugo Piazza e in quelli scuri e impetuosi – ma pieni di onore e intrisi di rispetto – di Rocco Musco, e con essi i corpi che li ospitano nell’incedere progressivo e inesorabile del destino. Un segnato, Piazza, colpito da un tradimento dei più biechi in quel climax mitologico che tra la soggettiva di un pugno e una revolverata alle spalle fa cascare il castello di carte su cui Di Leo costruisce la narrazione e i suoi delicati e caotici equilibri di umorismo, azione e violenza.
La ricetta perfetta secondo Di Leo: «C’è un certo bisogno di violenza nel pubblico, nel guardare certi film, come succede con il calcio grossomodo, era un modo per scaricarsi. Quei film si affermarono per cazzotti, sparatorie, inseguimenti e questo condimento piaceva». E in quel finale Milano Calibro 9 si eleva rendendo straordinario l’ordinario nello svelare la vera natura dei suoi uomini in funzione dell’ethos criminale. Piazza, da uomo granitico, statico, freddo e calcolatore, che spara poco (ma bene), si svela fragile e romantico, Musco, che di Piazza è il controcanto di forza bruta, folle e strabordante, in continuo movimento, si rivela invece custode dei valori morali della criminalità giusta, quella capace di riconoscere un avversario di livello e un uomo d’onore quando lo si incontra, tutta ascritta alla leggendaria linea dialogica finale: «Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza, il cappello ti devi levare!».
E poi l’incipit di puro cinema rock che procede in crescendo, di pari passo con la musicalità del tema principale – Preludio di Luis Bacalov e gli Osanna –, dove basta la consegna di un pacco, un inseguimento e uno scambio per catapultarci nel vivo di un intreccio che appare da subito rigoroso, ricco di depistaggi e dalla mitologia definita e colorita, i virtuosismi registici (come il magistrale piano medio di Adorf da dentro il manico del borsone nel terzo atto o il gioco di luci-e-ombre dentro l’abitacolo dell’auto in campo medio nel secondo) e le intuizioni frenetiche camera a mano. E ancora la scansione giornaliero-temporale rievocativa del titolo originale del film (Da lunedì a lunedì) che conferisce a Milano Calibro 9 un ritmo teso e incalzante, claustrofobico nel suo incedere serrato, e l’intramontabile go-go dance della Bouchet poi omaggiata da Quentin Tarantino in Grindhouse con Vanessa Ferlito.
Un film ispirato, Milano Calibro 9, figlio diretto-e-dichiarato dell’amore di Di Leo per il cinema noir nato in gioventù tra le pagine dei romanzi hard-boiled di Dashiell Hammett (Piombo e Sangue su tutti) e poi trasposto al cinema: «Di libri ce n’erano pochi al tempo, ma erano gli anni dei noir della Warner Bros con la coppia Alan Ladd-Veronica Lake», ispirato all’omonima raccolta di Giorgio Scerbanenco del 1969 e consolidatore della grammatica filmica del genere assieme a La polizia incrimina, la legge assolve di Enzo G. Castellari. Eppure c’era già qualcosa del poliziottesco in uno dei suoi lavori precedenti. I ragazzi del massacro, tratto sempre da un’opera di Scerbanenco: «L’avevo anticipato il genere con I ragazzi del massacro, perché la struttura era quella: il poliziotto umanizzato e socializzato che si curava dei ragazzi, e andava avanti così, con modalità diverse da quelle che saranno poi dei poliziotteschi».
Basterebbe questo per parlare di Milano Calibro 9 come un’opera di rilievo del cinema italiano (e non), ma c’è di più. C’è il vivido realismo degli intrighi malavitosi – «L’intrigo dei miei film – come La Mala Ordina – è molto più possibile perché quella la leggiamo, da Napoli a Palermo, quindi continuo a dire, sempre nell’iperbole che il cinema dà le cose, di aver fatto film realistici e psicologicamente più esatti rispetto ad altri autori, dal piccolo delinquente alla grande mafia» dirà Di Leo al riguardo – nelle dinamiche e soprattutto nei contorni caratteriali di poliziotti e commissari nemmeno così diversi poi dai criminali: «Nei miei film i poliziotti e i commissari hanno caratteristiche diverse rispetto agli altri poliziotteschi. Di solito non sono eroi che fanno inseguimenti, perché nella realtà i commissari stanno a sentire lo spione e poi fanno la retata, le sparatorie non ci stanno».
Nel caso di Milano Calibro 9 si va oltre, perché è addosso ai funzionari di legge, il Commissario senza nome (Frank Wolff) e il vice-commissario Mercuri (Luigi Pistilli) – uno cinico e dalla dubbia moralità, l’altro integro, pieno di iniziativa e pensiero critico – che Di Leo cuce nei continui confronti dialogici un ritratto impietoso (e senza tempo nda) della situazione politico-sociale del paese. Una critica che parte dalla modalità d’azione nella gestione del caso Piazza per riflettere sulla Questione Meridionale, sul divario sociale, sull’incapacità riformativa del sistema carcerario e quella strutturalmente difettosa del giudiziario, sino a indagare le ragioni della criminalità tra estrazione sociale, devianza ontologica e background culturale. Un capolavoro che sorprende, colpisce, emoziona e che nonostante lo scorrere del tempo continua a far parlare di sé, di visione in visione, oggi come ieri, cinquant’anni dopo…
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Qui sotto potete vedere il trailer del film
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