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Rivedere Nel Corso del Tempo | Wim Wenders e i nostri eterni (falsi) movimenti

Quel film del 1975, la modernità (e la necessità) di un cinema oggi troppo poco celebrato

Nel Corso del Tempo
Una scena di Nel Corso del Tempo di Wim Wenders.

ROMA – Ma che effetto fa rivederlo oggi? Nel corso del tempo, girato in undici settimane tra l’1 luglio e il 31 ottobre 1975 lungo il confine con l’allora Germania Est, rimane oggi senza dubbio una delle punte di diamante del cinema di Wim Wenders, un autore arrivato oggi ai settantasei anni con alle spalle una filmografia sterminata, forse oggi anche sotto-vista e sotto-analizzata, un po’ data per buona alla luce dei soliti contrassegni (il gusto apolide, il paesaggio, l’americanità vista dagli occhi di un non americano e così via).

Nel Corso del Tempo: Bruno “King of The Road” (Rüdiger Vogler) e Robert “Kamikaze” Lander (Hanns Zischler)
Nel Corso del Tempo: Bruno “King of The Road” (Rüdiger Vogler) e Robert “Kamikaze” Lander (Hanns Zischler)

Questo declassamento di Wenders da certi pantheon cinefili lo si deve forse al percorso tanto errabondo quanto irregolare che lui stesso ha costruito negli ultimi anni, ma Nel corso del tempo è il film paradigmatico per avviarsi alla riscoperta del passato di un regista che ha fatto spesso della rarefazione del tempo e dello spazio la massima forma di dinamismo. Un lungometraggio dalla durata di quasi tre ore, inquieto nei suoi eterni falsi movimenti (per parafrasare il titolo di un’altra importante opera wendersiana, che con Nel corso del tempo e Alice nelle città crea la “trilogia della strada”), eppure sempre placido e sommesso. Perfino sussurrato, anche nella disperazione.

Sul set con Wim Wenders
Sul set con Wim Wenders

Protagonisti sono Bruno “King of The Road” (Rüdiger Vogler) e Robert “Kamikaze” Lander (Hanns Zischler), due uomini che s’incontrano senza un motivo nella frontiera tra le due Germanie, separate da una divisione impalpabile che pure pesa come una cortina di ferro, a conti fatti una sorta di “schermo bianco” (che è anche il nome, in tedesco, del cinema che chiude il film, Weisse Wand). Il primo viaggia su un camion e ripara i proiettori delle sale cinematografiche, il secondo è un pediatra che si occupa di linguistica, si è da poco separato dalla moglie, per un pelo non finiva con la sua auto dentro il fiume Elba nel tentativo di farla finita.

Nel Corso del Tempo
Un momento del film

Il loro rapporto, in bilico tra l’amicizia e la convivenza randagia, sarà fatto di frasi smozzicate, non detti pronunciati a mezza bocca e qualche lampo filosofico arruffato, con una complicità che si struttura pian piano, lungo l’asse di un’estasi creativa (ma mai psichedelica, nonostante gli slanci hippy dell’epoca) che trova sfogo soprattutto nella giustapposizione degli spazi da parte della macchina da presa.

Nel Corso del Tempo
Un momento del film

Wenders setaccia gli ambienti con geometrie voyeuriste e imperturbabili, forte di un formalismo che però non lascia mai esplodere davvero, preferendogli la quiete transitoria delle zone franche: ponti sospesi, passaggi a livello, cieli sterminati e nuvole in viaggio che si riducono a fessure, giochi di luce tra ombre, corpi in disarmo e graffiti assecondati dalla fotografia di un gigante come Robby Müller (scomparso nel 2018), al servizio in questo caso di un magnifico e malinconico bianco e nero nel quale Wenders trova anche la possibilità di usare il rock classico americano come un rumore ancora una volta bianco, un tappeto uniforme e indistinto.

I panorami di Wim Wenders
I panorami di Wim Wenders

«Se resta anche un solo cinema tra dieci anni sarà sicuramente ancora aperto, sempre che resteranno ancora film»: una frase che letta oggi può destare più di un contraccolpo, ma che Wenders quasi mezzo secolo fa distillava senza turbamenti, dando per scontata la persistenza del cinema e, per l’appunto, il suo eterno, falso movimento a cavallo tra i silenzi, gli occhi, le stazioni. Quello di Nel corso del tempo è un cinema ammalato, di pellicole che hanno bisogno di essere suturate e ricucite, eppure mai così vivo, pronto ad annidarsi dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo, ad abbracciare altri linguaggi per uscire dal feticismo della cinefilia più ombelicale (e la convergenza complementare dei mestieri dei due protagonisti, in tal senso, è inequivocabile).

Una scena de Nel Corso del Tempo
Una scena de Nel Corso del Tempo

In uno dei dialoghi tra i due protagonisti si parla di luoghi (città, ma anche villaggi, piccoli centri) “senza potere” e “senza pace”: delle etichette tanto simboliche quanto didascaliche, che hanno bisogno di evidenziare il bisogno di una narrazione anarchica dell’urbanizzazione e dell’individuo che la abita. L’esigenza, oggi imperante in tempi in cui tutto è storytelling e il brivido del racconto rischia dunque l’azzeramento, che ognuno di noi sia (per davvero) la propria Storia, che le lettere e i numeri tornino a essere, come da bambini, avventure da esplorare tra le righe di un quaderno simili ad autostrade e non sintomi di un malessere, di quell’incomunicabilità diffusa e radicata di cui il film di Wenders si fa carico assoggettando insieme cinema, linguistica e pediatria.

Wim Wenders
On the road

«Bisogna cambiare tutto. Ci vediamo, Robert», recita un post-it posto alla fine del racconto. Quel monito ancora oggi risuona di un’attualità tanto ingombrante da risultare perfino sinistra, in tempi in cui ogni rivoluzione o presunta tale ha sempre più il sapore dell’immobilismo. E in compenso ogni viaggio, come in fondo è sempre stato, continua a esistere solo nella misura in cui fonde insieme l’eccitazione e il torpore per lo smarrimento e il ritrovamento di se stessi. Chissà dove, chissà come.

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