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Cattive Acque | Mark Ruffalo, la DuPont e la storia vera che ha ispirato il film

La lunga battaglia dell’avvocato Robert Bilott contro il colosso chimico. Ma è tutto vero? Sì

Cattive Acque
Mark Ruffalo in un momento di Cattive Acque.

MILANO – Possono dei semplici (si fa per dire) articoli di giornale diventare film? Storie vere che diventano finzione? Sì. La saga di Fast & Furious e Dallas Buyers Club, Argo e Boogie Nights, Il Caso Spotlight e Zodiac. Cos’hanno in comune questi film? Oltre a raccontare una storia vera – appunto – sono tutti ispirati proprio a degli articoli di giornale. A questa lista (parziale) va aggiunto Cattive acque, il solido legal thriller diretto da Todd Haynes ispirato ad un articolo – The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare – firmato da Nathaniel Rich e pubblicato dal New York Times Magazine il 6 gennaio del 2016. Ma chi è l’avvocato che è diventato il peggior incubo della DuPont? Robert Bilott che, sul finire degli anni Novanta, dopo essere diventato socio dello studio legale per cui lavorava difendendo aziende chimiche ne diventa accusatore.

Cattive Acque
Cattive Acque: l’articolo del New York Times dedicato a Rob Bilott

A prestargli il volto sul grande schermo ecco Mark Ruffalo, attore da anni in prima linea come ambientalista che, dopo aver letto l’articolo di Rich ne ha comprato immediatamente i diritti per realizzare Cattive acque coinvolgendo la Participant Media, già nome dietro la produzione de Il Caso Spotlight. «Mi è sembrato come se l’articolo non potesse entrare in tutti i dettagli», ha confessato l’attore a Variety, «Volevo girare un film e raccontare storie di persone reali in lotta in prima linea per la loro vita ogni singolo giorno e di cui non sentiamo mai parlare. E questo per me è stato un modo di prendere la mia forma d’arte e non essere politico, ma umano».

Cattive acque
Mark Ruffalo e Todd Haynes sul set del film

Ma quello del New York Times Magazine non fu l’unico articolo a parlare della lotta di Bilott contro l’azienda chimica (presente nelle nostre vite sotto decine di forme diverse, dalla lycra al nylon passando per le gomme sintetiche e le pellicole in bianco e nero del Neorealimo italiano). Nel 2015 Mariah Blake scrisse Welcome to Beautiful Parkersburg, West Virginia per l’Huffington Post e Sharon Lerner ne dedicò un’altro alla causa legale nella sua rubrica, Bad Chemistry, su Intercept. A convincere l’avvocato a fare causa al colosso chimico DuPont, un semplice agricoltore di Parkersburg, Wilbur Tennant – interpretato nel film da Bill Camp -, convinto che le acque del fiume da cui bevevano la sua famiglia e il bestiame fosse inquinate dagli scarichi chimici della vicina azienda. Ad appoggiare le sue ipotesi, una serie di prove raccolte in decine di VHS e un terreno diventato il cimitero dove seppellire le sue mucche.

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L’incipit dell’articolo di Bad Chemestry dedicato al caso DuPont

«Mi sembrava la cosa giusta da fare», commentò Bilott alla domanda di Nathaniel Rich sul perché accettare un caso come quello. Quasi vent’anni di battaglia legale, di attese infinite, di bugie e frustrazione. La sua, dei suoi familiari e delle migliaia di persone coinvolte in uno scandalo che costò la vita a centinaia e centinaia di persone. Perché quello che ipotizzava quell’agricoltore con la terza media e la testa dura era vero: la DuPont aveva deliberatamente avvelenato i fiumi del West Virginia riversando nelle loro acque i residui del PFOA, l’acido perfluorooctanico, scarico della produzione del Teflon utilizzato (anche) per rendere le pentole antiaderenti.

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Bill Camp è Wilbur Tennant, qui con le sue VHS.

Il risultato fu un incremento vertiginoso nella zona di casi di tumore e nascite con malformazioni. Un dato che portò ad una class action contro la DuPont conclusa, nel 2005, con 235 milioni versati per il monitoraggio medico di oltre 70mila cittadini dei sei distretti limitrofi all’impianto chimico in West Virginia e, nel 2017, con 600 milioni di dollari di risarcimento divisi in 3.500 cause. Una sentenza storica che, però, non ha impedito all’azienda del Delaware di continuare la produzione in diversi campi con tanto di fusione nel 2015 con un’altra multinazionale, la Dow Chemical. E forse è questo l’aspetto più inquietante della storia: nonostante le sentenze, nonostante le morti, la DuPont ha continuato per la sua strada: quella del profitto. Poco importa se gli studi sul Teflon hanno confermato che tracce di acido perfluoroottanoico sono presenti nel 99% del sangue degli esseri umani.

Mark Ruffalo in una scena di Cattive Acque.

Ma cosa fa oggi l’avvocato che ha ispirato Cattive acque? Parallelamente alla pubblicazione di un memoir, Exposure: Poisoned Water, Corporate Greed, and One Lawyer’s Twenty-Year Battle against DuPont, in cui ripercorre la sua battaglia contro l’azienda chimica, Robert Bilott non ha mai smesso di lavorare come avvocato ambientalista. E mentre la sua storia è arrivata al cinema e ora in TV, lui ha messo in piedi un’altra class action. Questa volta contro otto compagnie chimiche chiedendo che paghino per gli studi scientifici e i test che certifichino la sicurezza o meno delle sostanze utilizzate. «Con il PFOA abbiamo a che fare con una vera minaccia per la salute pubblica ed esistono informazioni al riguardo che abbiamo impiegato vent’anni a raccogliere e confermare», ha dichiarato l’avvocato a E&E, «Non dovremmo sprecarne altri venti per renderci conto che abbiamo già ciò che ci serve per andare andare oltre l’uso di questa sostanza chimica». E la lotta continua…

  • VIDEO | Cattive acque | Mark Ruffalo alla première del film a New York

Qui potete vedere il trailer di Cattive Acque:

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