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Mank | Quarto Potere, la vecchia Hollywood e il nuovo classico di David Fincher

Un film sul potere e la potenza delle storie, nostalgico eppure attuale. Su Netflix dal 4 dicembre

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ROMA – Nei titoli di testa di Mank compare la scritta Screenplay by Jack Fincher, il padre del regista, scomparso nel 2003, che molti anni prima aveva scritto lo script di un film dedicato a Herman J. Mankiewicz, leggendario sceneggiatore della Hollywood degli anni Trenta e Quaranta. Ora quella sceneggiatura restata per anni irrealizzata– rivista da David Fincher e Eric Roth senza essere citati (!) – è diventata un film Netflix. Ultimo (e definitivo) tassello che eleva la piattaforma a produttore e distributore di film d’autore – da Roma a The Irishman fino al recente Il processo ai Chicago 7 – e regala al pubblico il film più bello dell’anno. Facile, direte voi, vista l’annata disastrosa per il cinema, tra rinvii e produzioni bloccate. Ma quello di David Fincher – regista legato a doppio filo con l’evoluzione della piattaforma, da House of Cards a Mindhunter – è un film destinato a fare la Storia.

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Gary Oldman è Herman J. Mankiewicz

Al centro il Mank di uno strepitoso Gary Oldman, ex giornalista e critico teatrale del New Yorker e del New York Times che lascerà la Grande Mela per l’assolata Los Angeles dove, insieme ad un gruppo di giovani sceneggiatori, contribuì a fare di Hollywood la fabbrica dei sogni, prima alla Paramount e poi alla Metro-Goldwyn-Mayer. Fincher ce ne racconta la parabola discendente nell’arco di dieci anni, dalle writers room fumose e dal clima elettrico, al declino professionale segnato dall’alcolismo e culminato in un incidente stradale che lo costringerà a letto con una gamba ingessata. È lì che il ventiquattrenne Orson Welles (Tom Burke), dopo aver fatto invadere gli alieni in America, arriva come in una visione onirica a proporgli un patto: scrivere la sceneggiatura del suo primo film. Libertà totale e una sola regola: restare sobrio. Ah, e una postilla: il suo nome non sarebbe comparso sulla sceneggiatura.

Gary Oldman e Lily Collins in una scena di Mank

Il suo talento a servizio dell’esordio cinematografico della next big thing hollywoodiana. Accudito da John Houseman e un’infermiera tedesca e aiutato da una dattilografa inglese con il volto di Lily Collins, Mank si ritrova in un ranch del Mojave a dare sfogo al suo talento. Nascono così quelle pagine dal retrogusto personale che vedono nel Charles Foster Kane di Quarto Potere il ritratto dell’editore William Randolph Hearst (Charles Dance) e della sua amante, l’attrice Marion Davies (un’ottima Amanda Seyfried) ispiratrice del personaggio di Susan Alexander, che Mankiewicz aveva avuto modo di conoscere molto bene. Un racconto frammentato, fatto di flashback e dissolvenze che il montatore Kirk Baxter alterna tra le scenografie di Donald Graham Burt in cui si muovo gli uomini e le donne della Los Angeles degli anni Trenta vestiti dai costumi impeccabili di Trish Summerville.

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Tom Burke è Orson Welles

Tutti strumenti nelle mani del direttore d’orchestra David Fincher che li fa suonare all’unisono ma sui quali spicca la fotografia in un bianco e nero brillante di Eric Messerschmidt. Filmato in digitale, Mank è un film prodotto da una piattaforma ma che tende a ricostruire con fedeltà ossessiva l’esperienza cinematografica della golden age del cinema hollywoodiano grazie all’effetto fotografico della pellicola, alle inquadrature, al sonoro di Ren Klyce e alla colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross che omaggia il genio di Bernard Herrmann e il jazz. Un film nostalgico di un’era eppure profondamente moderno nelle tematiche affrontate.

David Fincher e Gary Oldman sul set di Mank

Perché a David Fincher non interessa poi molto sancire in via definitiva chi tra Mankiewicz e Welles sia l’autore di Quarto Potere – già raccontato nel 1971 da Pauline Kael nel saggio Raising Kene – quanto raccontare una storia di lotta per i (propri) diritti. Mank è un film sul potere e su come possa essere esercitato a favore o a discapito di una parte. Alcuni flashback del film si concentrano sulle elezioni, nel 1934, per la corsa al Governatorato della California. Nel bel mezzo della Grande Depressione da un lato il candidato repubblicano Frank Merriam e dall’altro il democratico – etichettato in modo dispregiativo come socialista – Upton Sinclair. In mezzo a loro lo zampino di William Randolph Hearst che spinse i capi degli Studios a sabotare “il comunista” Sinclair creando filmanti di falsa propaganda nei loro teatri di posa.

Un’immagine del film

E non è affatto difficile scorgere un parallelismo tra il 1934 e il 2020. Se ieri i filmati di attori che si fingevano comuni cittadini dichiaravano di votare il democratico Merriam per non dare l’America in pasto ai comunisti, oggi quella propaganda passa attraverso altri media sotto forma di fake news create per pilotare l’opinione pubblica. Se The Social Network raccontava la nascita di Facebook, potremmo azzardare che Mank ne racconta l’evoluzione in un film che racchiude tanti strati di lettura.

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Dietro le quinte di Mank

Il biopic dedicato ad un uomo che ha deciso di non restare nell’ombra, un omaggio al cinema e alle sue tante anime – magica, cinica, illusoria – il dietro le quinte del più grande film mai realizzato, una lettera d’amore ad un padre che non c’è più, un film politico. Mank è una Xanadu colma di storie e la sua Rosebud è il cinema con cui David Fincher gioca creando un cortocircuito tra passato e futuro di un’invenzione in continua evoluzione. Un film che rimarca la potenza delle storie. Come quella rimasta per trent’anni in un cassetto – e chissà se John Fincher non vincerà un Oscar postumo per la miglior sceneggiatura originale – che oggi risuona potente come solo un classico riesce ad essere.

Qui potete vedere il trailer di Mank:

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