Formalista, estetizzante e di maniera? Forse. Ma anche profondo, personale, sincero. Roma di Alfonso Cuarón – in sala fino al 5 dicembre – è, senza dubbio, tra i candidati d’obbligo per uno dei premi principali ai prossimi Oscar. Merito di una potenza visiva straordinaria, di un bianco e nero digitale abbagliante e splendente, di una regia sinuosa che seduce e fa immergere nella quotidianità di una famiglia altoborghese di Città del Messico del 1970, raccontata attraverso corpo e anima della giovane domestica Cleo (la magistrale non attrice Yalitza Aparicio), che, dopo le prime esperienze sessuali, viene lasciata dal fidanzato nello stesso momento in cui la padrona di casa è abbandonata dal marito.
Non solo un affresco sontuoso su un momento storico, e sarebbe riduttivo limitarsi al contrasto sociale di un Messico in cui classe ed etnia si intrecciano in maniera inaspettata e perversa: Roma (il titolo si riferisce a un quartiere della metropoli) è soprattutto il ritratto di due donne, lontane per posizione gerarchica e vicine per destino, che si sorreggono a vicenda per non sprofondare nel caos di un Paese in cui si consumano le violenze delle milizie appoggiate dal governo nei confronti dei manifestanti del movimento studentesco (il Massacro del Corpus Christi, 10 giugno 1971).
Il cuore di un’opera talmente impeccabile da permettersi qualche lungaggine di troppo e qualche leziosismo tecnico appartiene proprio alle protagoniste, due mamme, una per sangue e l’altra per necessità, e a quei bambini insieme a cui poter ripartire, ricostruire una famiglia, affrontare la crescita, i terremoti, gli incidenti, il mare mosso. E, in modo più o meno consapevole, la vita politica, la “cosa pubblica”.
Per Cuarón, Roma è il film sulla sua memoria, sulle persone che lo hanno cresciuto, sul mistero dell’amore che oltrepassa spazio, ricordo e tempo. Un urgente, lussuoso ritorno alle sanguinose radici da parte del regista messicano, che con la maestria dell’autore internazionale confeziona uno struggente omaggio alle libertà sconfinata del cinema di prendersi i suoi ritmi, le sue pause, sfidando convenzioni e sentimentalismi.
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