MILANO – Due operai, lo Yorkshire e tanti pregiudizi da sconfiggere. È una storia di accettazione, di sé stessi e degli altri, e il più classico dei cliché “da nemici ad amanti” quella che Francis Lee racconta nel suo debutto alla regia, La terra di Dio (ora lo trovate su MUBI o a noleggio anche su Apple TV, CHILI e Prime Video). Nella sua carriera, iniziata come attore, Lee è arrivato per ora a firmare solo due titoli, insieme a un’altra storia queer, Ammonite. La sua produzione non è così prolifica e ci vuole qualche anno perché i film arrivino alla luce, ma quando lo fanno, la sua sensibilità e la forza dei suoi racconti trasformano le pellicole in delle piccole perle da scoprire e amare.
I protagonisti de La terra di Dio sono Johnny (Josh O’ Connor, prima di La Chimera e Challengers) e Gheorghe (Alec Secareanuo). Johnny ha dovuto lasciare il suo lavoro in città per tornare a lavorare nella fattoria di famiglia dopo l’infarto di suo padre, un elemento che è un riferimento alla vita del regista, che dovette scegliere se rimanere nell’azienda agricola di famiglia o andare alla scuola di cinema. È un uomo schivo e solitario, chiuso nei suoi pensieri e nelle sue convinzioni. Tutto cambia quando Gheorghe viene assunto: immigrato romeno, abituato a non essere accettato e ai pregiudizi. Nei posti più isolati dello Yorkshire, dove solo qualche piccolo villaggio compare tra le distese, lontano dalle grandi città, chi arriva da fuori è guardato con sospetto.
La xenofobia non è un miraggio, e Francis Lee si ricorda di sottolinearlo. Johnny inizialmente è scontroso con Gheorghe, poi impara ad apprezzarlo e abbandona i nomignoli sprezzanti e i trattamenti bruschi. Ma c’è ancora uno scoglio da superare: il legame che si crea tra i due rischia di essere oscurato dai meccanismi di protezione di Johnny, per troppo tempo rimasto solo e inaridito dal duro lavoro. Per questo il film è così speciale, per questo il film è speciale per tanti. Meno conosciuto dei grandi classici, da Brokeback Mountain a Chiamami col tuo nome, è una lenta e meravigliosa decostruzione di come un semplice sentimento può profondamente cambiare le persone.
I personaggi di Lee sono sempre umani e i loro difetti sono ciò che li rendono così speciali. Non c’è spazio per quelle improvvise risoluzioni che a volte tanto amiamo nei film, specialmente se sono storie d’amore. Johnny ha preso delle cattive abitudini, e nonostante l’altro lo accetti per ciò che è, è difficile per lui abbandonare l’alcool e il sesso occasionale. Ci vogliono settimane prima che il ragazzo si renda conto che deve cambiare e che se vuole avere una chance per una vita più felice, è richiesto uno sforzo anche da parte sua. È difficile, ma necessario. Johnny impara comunicare, riconosce i propri errori e decide di cambiare: «Non voglio più fare il cazzone».
La terra di Dio non si perde nel luccichio e nei lustri dei blockbuster americani, nemmeno di quelli che del cinema LGBTQ+ ne sono l’emblema. Rigetta qualsiasi tentativo di trovare una denuncia sociale o un messaggio universale. L’azione di Lee è quella di registrare un sentimento che chiamiamo amore, quando coinvolge due persone che probabilmente da tempo hanno dimenticato cosa sia. Il fatto che siano due uomini è solo indicativo del fatto che la realtà e la natura sono più varie di quanto non si creda, ma l’intero film non ruota solo attorno a questo. E meno male. Il suo è un messaggio per chi ne ha bisogno e ricorda una piccola ma importante verità: che una parte dell’amare è crescere, rendersi conto di chi si è, assumersi le proprie responsabilità e scendere a patti con la vita che si desidera. Nient’altro.
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